Nei pressi di Anversa – Febbraio 1076
Il conte Roberto delle Fiandre si spogliò completamente nudo, si tolse gli abiti ed i segni distintivi che potevano renderlo riconoscibile legandoli in uno stretto involto, indossò un vecchio abito ed aprì la porta della stanza dopo aver nascosto una spada dietro la schiena.
La porta cigolò e si fermò.
Sporse la testa in corridoio per guardare se c’era qualcuno e poi, lentamente e con il cuore in gola sgusciò fuori richiudendo piano la porta alle sue spalle.
“Fin qui tutto bene!” pensò.
Era scalzo ed i suoi passi erano silenziosi.
Qualche candela accesa illuminava il corridoio e la grande scala che scendeva a piano terra.
Doveva fare presto.
Scese gli scalini fermandosi ogni tanto per ascoltare e per guardarsi intorno, ma c’erano i soliti rumori della notte.
Quell’ala del palazzo nelle ore notturne era abitata solo dai nobili, difficilmente avrebbe incontrato uno dei tanti servitori e nessuno doveva vederlo.
Roberto attraversò il grande salone senza il minimo rumore, si aggiustò l’involto sulla schiena che conteneva i suoi abiti, guardò fuori da una delle finestre per controllare se c’era qualcuno in cortile sul davanti della reggia e respirò di sollievo. “Nessuno, non c’è nessuno. Ce la farò!”
Il fuoco del camino era ancora acceso, un ceppo scoppiettò provocandogli un tuffo nel panico.
Doveva andare sul retro del palazzo ed aveva due scelte: aggirare la costruzione dall’esterno, oppure uscire da una delle porte sul retro.
Aveva studiato tutto in precedenza e sapeva cosa fare.
Notti e notti insonni per controllare i movimenti delle guardie, per ascoltare i rumori di qualcuno che russava o mormorava parole sconnesse dormendo, di qualche inserviente che tardava a finire di espletare le sue mansioni lo avevano convinto sulla strategia da seguire.
Roberto conosceva bene quel palazzo e percorrendo l’ala riservata alla servitù, si ritrovò in breve ad osservare le stalle dei cavalli che distavano almeno cento passi.
Stentava a trattenere il panico, non aveva mai fatto una cosa come quella che stava per fare e se l’avessero scoperto…
Un cavallo nitrì lontano, una guardia passò indolente osservandosi più la punta dei piedi che guardandosi intorno fino a quando sparì dietro le prime stalle.
Era quasi arrivato; le latrine erano proprio fuori da quella porta… la stessa che avrebbe usato anche il gobbo per uscire.
“Bastardo, essere spregevole e deforme!”
Prima di accedere guardò ancora dalla finestra… non c’era nessuno e depositò il fagotto con gli abiti in un angolo buio. Alzò con cautela il gancio che chiudeva l’uscio e lo socchiuse con i nervi a fior di pelle.
“Cinque passi… cinque passi e ci sono!”
La latrina del conte Goffredo il Gobbo era la prima, la più comoda ovviamente… e ci poteva andare solo lui. Si trattava di una piccola costruzione in legno con una porta per entrare ed un buco sul quale accovacciarsi per fare i propri bisogni, ma sotto… sotto c’era il deposito delle feci al quale accedevano gli inservienti per pulire ogni tanto. Roberto sperò che avessero pulito, quel giorno, perché doveva entrare proprio lì.
Aprì la bassa porticina e la puzza lo colpì come un pugno allo stomaco.
Entrò e richiuse subito tremando come una foglia.
C’era freddo, aveva paura e il fetore era nauseante.
Non vedeva nulla. Solo una fessura fra le assi della porta gli permise di osservare una candela accesa, nel locale che aveva appena lasciato.
I piedi nudi scivolarono un po’ su qualcosa di appiccicoso.
Un topo corse via spaventato ed irritato, squittendo come se lo rimproverasse che quello non era il posto per esseri umani.
Non potendo resistere al terribile lezzo Roberto strappò un pezzo di stoffa dal bordo del sudicio abito, lo piegò più volte e se lo premette sul naso per cercare di mitigarlo.
“Speriamo che non ci metta molto!” pensò.
Fino a quel momento era andato tutto bene e cercò di rilassarsi un po’, mentre un occhio non perdeva di vista quella candela.
Non temeva di perdere il momento per fare ciò che doveva, avrebbe visto senz’altro il gobbo e comunque lo avrebbe sentito arrivare sopra di sé.
“Non puoi tardare maledetto! Con quella roba che ti ho messo nella minestra devi venire qui per forza! Non la fai mai nel bacile che hai in camera perché non sopporti gli odori sgradevoli, non è così? E allora forza, che io sono qui che ti aspetto.”
Il tanfo attraversò la pezza e gli salì un conato di vomito, sentiva fra i piedi qualcosa che si muoveva e pensò agli scarafaggi, maledisse i servitori che pulivano poco e niente e pensò a lei… alla persona che più amava e stimava.
Era per lei che stava facendo tutto questo.
“Maledetto bastardo di un gobbo, quella donna ha rischiato la vita per darti un figlio ed è quasi morta. È forse colpa sua se non era maschio e se la neonata è spirata dopo qualche giorno? Hai accusato tua moglie di essere un’incapace e perfino di portare il malocchio solo perché non riesce a darti un erede. È vero che il compito principale delle donne è quello di assicurare una discendenza, ma lei non ha colpe, lei è bellissima, lei è adorabile, lei è…”
Il tempo non passava.
Aveva bisogno di aria pura, di muoversi.
La paura gli provocò degli spasmi allo stomaco come se dovesse defecare e fu allora che sorrise: “Se proprio mi scappa, guarda che fortuna, sono già nel posto giusto, no?”
Sentì dei passi e si ritrasse dalla fessura pensando che potessero vederlo, ma lo sapeva che non era il gobbo.
“Accidenti, dovevo dargliene di più di quella polvere! L’ho visto dalla finestra della mia stanza che è andato in bagno già da parecchio tempo e deve tornarci di sicuro. Quelle erbe sbloccano chi è stitico, però se prese in quantità superiore alla norma provocano grandi dolori alla pancia e non ti lasciano posare. Lo ricordo come fosse adesso un mio vecchio amico andare fuori e dentro dalla stanza fino al mattino, con dei dolori lancinanti che lo facevano persino piangere.”
I passi non si sentivano più e Roberto riportò l’occhio alla fessura fra le due assi e vide la luce di una torcia all’interno della finestra.
“Eccolo!”
Notò il conte Goffredo il Gobbo che si teneva la pancia con una mano attanagliato da interminabile una smorfia di dolore, lo vide aprire la porta e uscire barcollando, lo sentì precisamente entrare nel gabinetto ed immaginò il momento in cui si accucciava.
Un getto caldo arrivò sul piede destro di Roberto mentre il Gobbo mormorava di sollievo.
Roberto aspettò che finisse la scarica puzzolente, sguainò la spada da dietro la schiena e complice la luce della torcia che il gobbo aveva appoggiato ad un supporto, vide chiaramente il deretano del suo nemico.
Mormorando: “Per Matilde!” spinse in alto e con forza la spada, che penetrò fra le natiche del gobbo quasi per metà.
Si udì un urlo tremendo, possente, straziato: ormai era fatta e Roberto uscì dal gabinetto; entrò nella sala in cui aveva lasciato gli abiti e dopo averli presi corse ad un ripostiglio dove sapeva che c’erano sempre a disposizione diversi secchi pieni di acqua.
La residenza si animò di colpo.
Le grida che venivano da fuori non cessavano.
“Non è morto, quel bastardo!”
Roberto si spogliò, si lavò i piedi con attenzione nonostante il buio, stava cominciando ad indossare i suoi abiti quando sentì i primi passi di gente che arrivava.
Doveva stare calmo… assolutamente restare calmo. E però le mani cominciarono a tremare, stentò a capire da quale parte doveva infilare l’abito, vestirsi fu più complicato del previsto con i lacci che gli scappavano via.
Gli stivali sembravano vivi e scivolavano come pesci.
“Stai calmo! Se anche non ti vesti perfettamente sarai giustificato da tutto questo trambusto e dalla fretta di accorrere in aiuto a chi grida!”
Da fuori sentiva un grande andirivieni di gente che urlava: “È il conte, è ferito! Chiamate l’infermiere, fate presto!”
Altri che dicevano: “Com’è successo, è ferito gravemente?”
Roberto aspettò di non sentire più nessuno; lo sapeva che i servitori sarebbero tutti usciti in cortile per assistere o per cercare di aiutare; di sicuro, da lì a poco, quelle stanze si sarebbero svuotate.
Infatti, uscì poco dopo e lì intorno non c’era nessuno.
Attraversò i locali della servitù e quando arrivò a quelli riservati ai nobili fermò una giovane serva. “Che’ sta succedendo? Chi è che urla?”
“Non lo so signore, scusatemi ma devo correre dalla sorella del conte che si è sicuramente svegliata.”
In quel momento entrarono nel salone cinque guardie armate di spada, si guardarono attorno e non vedendo segnali di pericolo uscirono di nuovo.
Il cortile davanti al palazzo si stava riempiendo di soldati e Roberto ne fermò uno, si fìnse assonnato e trafficava con i cordoni della scollatura come se si stesse rivestendo in quel momento. “Qualcuno si è fatto male?”
“Sembrano urla del conte Goffredo signore. Andate nella vostra stanza e chiudetevi dentro per favore. Non credo che ci sia pericolo, però non si sa mai!”
“Grazie soldato, ma voglio accertarmi che il conte stia bene!”
“Quando è così, verrò con lei per proteggerla in caso di pericolo.”
“In caso di pericolo? Che pericolo ci può essere?”
“Non lo so signore, ma è meglio essere prudenti.”
Roberto svoltò a destra per aggirare il palazzo, poi si accorse che il soldato storceva il naso e che nonostante si fosse lavato i piedi, intorno a lui aleggiava ancora odore di feci.
Goffredo il Gobbo fu trasportato nella sua camera con la spada ancora infilata in corpo, sopravvisse per qualche giorno e morì il 27 Febbraio 1076 straziato da atroci sofferenze.
Il conte fiammingo Roberto delle Fiandre lasciò il palazzo dopo i sontuosi funerali. Di seguito iniziarono le indagini e solo molto tempo fu sospettato dopo di essere l’autore dell’omicidio.
***
Santa o prostituta?
di Angelo Vaccari
2014, 392 p., rilegato
Cicorivolta
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Il commento di NICLA MORLETTI
Febbraio 1076, nei pressi di Anversa. Ed ecco l’incipit, che secondo me è molto efficace, di questo affascinante romanzo storico: “Il conte Roberto delle Fiandre si spogliò completamente nudo, si tolse gli abiti ed i segni distintivi che potevano renderlo riconoscibile legandoli in uno stretto involto, indossò un vecchio abito ed aprì la porta della stanza dopo aver nascosto una spada dietro la schiena. La porta cigolò e si fermò.” A questo punto la curiosità si fa strada nella mente del lettore che proseguirà appassionatamente nella lettura, durante la quale emergerà la figura della contessa Matilde di Canossa, una donna, maritata ad un uomo che non l’ama e a cui è morta anche una figlia. E si sa, quando manca l’amore, se si ha la fortuna prima o poi di incontrarlo, lo si accoglie a braccia aperte. Donna dal carattere forte e volitivo, attraverserà mille avventure in un periodo storico in cui le femmine erano considerate di rango inferiore. Sfilano tra le pagine personaggi memorabili, dall’imperatore Enrico IV a Papa Gregorio VII. Si stagliano nella mente del lettore l’Abbazia di Nonantola con il suo tesoro nascosto, le cime dei monti ed il cielo chiaro. È sempre entusiasmante leggere un romanzo storico e Angelo Vaccari è veramente bravo nel descrivere personaggi, situazioni e cose, nel mettere, pagina dopo pagina, quel pizzico di curiosità che non guasta mai, usando un linguaggio sobrio e appropriato. Un bel romanzo di 385 pagine in cui si nota conoscenza della materia, capacità narrativa e descrittiva, un ottimo iter degno di lode.