La «morte mi ha preso per mano», e mi ha preso per mano quando, quella mattina del primo venerdì di settembre del 1998, l’Aiuto Primario del Reparto di GastroEnterologia dell’Università – che il mio medico curante, appena vista la nuova bariografia, aveva contattato urgentemente!!! – mi ha spiegato che l’unica soluzione per la mia malattia, soluzione che, in un’alta percentuale di casi, poteva non comportare effettivi pericoli di recidive, era un’operazione chirurgica con anestesia totale.
Le altre alternative erano, rispetto a questa più «drastica» soluzione, più o meno dei palliativi: l’allargamento della valvola con il palloncino, attraverso una sonda infilata nell’esofago, infatti, durava al massimo cinque anni e poteva lasciare problematiche cicatrici nel caso che, a quel punto, si fosse stati «costretti» ad intervenire chirurgicamente; l’iniezione di botulino, poi, durava al massimo due anni e non funzionava neanche in tutti i casi; entrambe queste soluzioni, infine, non risolvevano il problema del rigurgito, non proteggendo quindi a sufficienza l’esofago dai potenti acidi che potevano rifluire indietro dallo stomaco.
Se non si fosse intervenuti chirurgicamente il più presto possibile, perciò – continuò il medico – la persistalsi, già in parte compromessa, sarebbe scomparsa, l’esofago si sarebbe ulteriormente dilatato e la mia qualità della vita, già peggiorata da diverso tempo, per la verità, si sarebbe ulteriormente deteriorata, sino al punto di perdere del tutto la facoltà di deglutire autonomamente.
Mi disse tutte queste cose molto velocemente e crudamente, senza un minimo di premessa o di «materasso psicologico», appena io e mia madre eravamo entrate nel suo ufficio: una stanza di media grandezza illuminata da una grande finestra; l’Aiuto Primario, un bell’uomo riccioluto e brizzolato sulla quarantina, assomigliante vagamente a Terence Hill, stava seduto alla sua scrivania e mi guardava con espressione molto affettuosa e paterna.
Mentre mi parlava – forse per fuggire dalla paura – io mi guardavo intorno: sulla mia sinistra, lungo il muro, c’era una minuscola scrivania sulla quale stava il suo PC con una enorme stampante laser, sulla mia destra stava un mobile metallico di colore grigio con la serratura; fuori della finestra il tempo era bello.
Nonostante fosse carinissimo, e mi dicesse in tutti i modi possibili ed immaginabili che dovevo stare tranquilla, l’avere saputo così crudamente e repentinamente che non c’erano effettive e sicure alternative all’andare sotto i ferri non mi rendeva particolarmente felice o tranquilla.
L’Aiuto Primario mi raccontò che anche sua moglie era stata operata per il medesimo problema; la sintomatologia di quest’ultima era comparsa durante la prima gravidanza ed ora aveva avuto anche un altro bambino ed era in perfetta salute. Mi diceva che lui non faceva neanche caso alla cicatrice che le era rimasta sullo stomaco forse perché – sottolineò ridendo – era molto innamorato. Mi consigliò di farmi operare dal professore che aveva operato anche sua moglie.
Continuò a parlarmi a lungo, per circa una quarantina di minuti, dandomi l’impressione di avere preso molto a cuore il mio caso; mi raccontò che da quando sua moglie si era ammalata si era fortemente specializzato sulla malattia dell’acardiacalasia, che aveva scritto anche un libro sull’argomento, che partecipava a convegni internazionali, con altri grandi specialisti del settore, per parlare di come risolvere questo problema. Mi consigliò l’intervento «a cielo aperto» perché – a suo parere – maggiore era la precisione rispetto ad una laparoscopia, innovativa tecnica chirurgica che, nel caso di questa particolare malattia, considerava ancora troppo pioneristica. Mi parlò dei casi di acardiacalasia che aveva curato ultimamente: gente che era arrivata da lui conciata veramente male, molto sotto peso, con un esofago decisamente più dilatato del mio (nel mio caso 4 centimetri di diametro contro addirittura un 12 centimetri). Mi raccontò che a molte di queste persone i medici avevano sbagliato diagnosi: alla maggior parte veniva detto di soffrire, appunto, di problemi di origine nervosa, in alcuni casi addirittura di anoressia. Che il mio caso aveva confuso le acque magari per il fatto che – a parte le occhiaie perché non dormivo più la notte od una tracheite quasi perenne curata con «chili» di Aulin – avevo tutt’altro che un aspetto emaciato.
Non posso negare che l’atteggiamento dell’Aiuto Primario, ed i suoi sorrisi empatici, mi trasmisero un po’ di conforto, ma in realtà il mio calvario psicologico era appena cominciato.
L’acardiacalasia non è il cancro: non comporta chemioterapie o radioterapie devastanti e controlli frequenti contro eventuali metastasi, ma un’operazione, per un paziente, è sempre un’operazione, e con l’acardiacalasia c’è comunque una percentuale non indifferente di recidive con cui, forse, dover fare i conti nonché di conseguenti analisi da effettuare successivamente all’intervento.
La questione, poi, non si riduce solo alla differenza tra togliere un’appendicite o togliere mezzo fegato malato. La questione è anche il terrore – comune, penso, a tutti quelli che affrontano questo tipo di evento – che ti provoca l’idea dell’anestesia, l’idea del bilico che quest’ultima comporta tra la vita e la morte, l’idea che ti addormentano compiendo una «sorta di prepotenza fisiologica» devastante, anche se attentamente controllata, nei confronti del tuo organismo, l’idea della paura che non ti svegli, che rimani in coma o, molto più semplicemente, che ci rimani secco! Per non parlare delle idee che ti mettono in testa le cronache quotidiane, come di bisturi e di garze lasciate dentro la pancia, gente che non si risveglia o che rimane in coma, la mala sanità in generale e così via.
Tu provi a razionalizzare sopra questi pensieri: i medici ti dicono che è un’operazione relativamente semplice, non pericolosa, e che occorre solo molta precisione e tanta pazienza. Ma la parte più emotiva del tuo cervello non si accontenta di queste «chiacchere vaneggianti» e pensieri sempre più angoscianti ed incontenibili ti attanagliano nella quotidianità preoperatoria: tu cerchi di spingerli indietro, compiendo attività ed azioni che dovrebbero allontanarti dal malessere, ma il pensiero della morte non ti abbandona quasi mai.
Ed è così che la morte ti ha preso per mano.
Tu sogni di fuggire lontano, magari su un’isola deserta con il tuo fidanzato, lontano da tutti e da tutto, ma sai benissimo che devi affrontare quel maledetto ponte sospeso nel vuoto completamente da sola, che non puoi più tornare indietro e che, se vuoi continuare a vivere, devi avere il coraggio di vincere le tue vertigini psicologiche e affrontare risolutamente quel tratto vincolato della tua esistenza.
Alla morte devi avere il coraggio di tenere la mano.
Sì, ma posso decisamente migliorare nello stile…
Ho letto le vostre cose, così belle e fluide…
Il mio modo di scrivere, rispetto al vostro, è decisamente immaturo…anche se adesso è cambiato…quello che hai letto l’ho scritto nel 1999 e mi ci riconosco solo in parte…
Spero di migliorare, frequentandovi…
Un abbraccio
questo tuo modo è pieno di un’estrema e piacevole sincerità…
la tua vita, la tua ottica…