1° CAPITOLO – LA RIAPPROPRIAZIONE DELL’ANIMA

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    La morte l’ho conosciuta a 19 anni, un sabato notte qualsiasi passato con il mio fidanzato A.

    Quella sera eravamo andati a pomiciare nella piazza limitrofa al Coni di Tirrenia. Era una bella serata: non pioveva. Mi ricordo i lampioni gialli del viale del Coni ed i boschi verdi scuri che lo circondavano mentre con la macchina ci avviavamo verso la sua casa.

    Avevamo deciso di rientrare presto perché sua madre e sua sorella erano sole (suo padre era alle terme di Porretta per curarsi i suoi problemi polmonari).

    Era poco dopo la mezzanotte: vedemmo dalla strada che le luci della sua casa erano ancora accese, ma io non immaginavo che fosse successo qualcosa di particolare; d’altronde ero abituata a dei genitori che restavano talvolta alzati fino a – o rientravano anche – molto tardi; invece il mio ragazzo – mi dirà in seguito – aveva capito subito che c’era qualcosa che non andava.

    Aprii il cancello ferroso basso e nero e mettemmo la Tipo verde scuro metallizzata dentro il cortile lastricato di pietre grige: improvvisamente si accese la luce delle scale dell’ingresso e la mamma di A.,  uscendo improvvisamente dalla porta d’ingresso, ci disse tutta concitata: "è successa una disgrazia!"

    In quei pochi secondi in cui il mio cervello rielaborò il messaggio, la prima persona a cui pensai fu il padre di A. Il mio ragazzo mi riferirà più avanti che, invece, aveva pensato ai nonni materni.

    Mai ci saremmo immaginati che fosse morto Federico, suo cugino di primo grado di soli diciassette anni

    La madre di A., nella disperazione, ci disse che le avevano telefonato poco dopo le otto, che era successo in moto, che avevano chiesto di A. o di suo padre perché non lo volevano dire a lei.

    La madre di A. poi aveva subito telefonato alla mia mamma. I miei genitori, dopo poco, vennero entrambi: oltre che sconvolti erano preoccupati che io dessi disturbo. Ma io non me ne volevo andare, volevo restare con A. e la sua famiglia. Quindi presero la mia Pandina nera e tornarono a casa (alle 4 del mattino circa).

    Mi ricordo che tutto il «dialogo» si svolse nel corridoio dell’ingresso; la luce che ci sovrastava era gialla, quella della cucina vicina un po’ più bianca. Mi sembrava di essere in una specie di sogno: non riuscivo ad afferrare completamente quello che mi succedeva intorno. Il mio cervello era entrato in una sorta modalità binaria, perdendo le sue solite capacità pluridimensionali e trasversali.

    Cercai allora di concentrarmi sull’unico e reale «aggancio» affettivo che avevo allora in quella casa: cercai di capire le reazioni proprio di lui, di A.; provai a comprendere di che cosa poteva avere bisogno, come lo potevo aiutare, ma ero completamente impreparata.

    Vedevo A. che aveva già spento il viso e batteva la testa contro il muro, vedevo che si dimenava in un inizio di dolore allucinante, ma non riusciva ancora a rielaborare.

    Evidentemente, come me, non voleva crederci e lo dimostra il fatto che quella notte non versò una lacrima.

    Come, durante la tempesta, una violenta folata di vento spezza i rami, anche della quercia più dura, ma non si staccano subito del tutto e le ferite hanno appena cominciato ad aprirsi, così era A., ed io attraverso di lui.

    Il giorno dopo andammo ai funerali. La salma di Federico giaceva vicino all’ingresso; tutti gli si avvicinavano e tutti gli si accomiatavano piangendo, tutti si abbracciavano cercando di lenire disperatamente il proprio dolore, ma invano. Mi sentivo spaesata e fuori luogo: volevo confortare tutti ma non sapevo da dove iniziare.

    Il tempo sembrava essersi fermato: percepivo dentro e fuori di me una sorta di sospensione temporale che paralizzava i miei gesti ed i miei pensieri.

    In superficie allora non mi resi subito conto, e nello stesso tempo intuì ad un livello profondo, che quelli non erano solo i funerali di Federico, ma di un’intera famiglia. Non si può esprimere con semplici e banali parole il dolore lacerante che "spezzava quella casa da parte a parte".

    Posso dire solo che A., ogni tanto, si rifugiava in giardino per nascondere le sue lacrime lontano da quelle degli altri, ed io lo seguivo come un cagnolino silenzioso, cercando invano di placare il suo tormento.

    La morte di Federico ha cambiato la vita di molte persone che lo amavano: la morte di Federico ha cambiato anche la mia vita, da un punto di vista interiore.

    Il mio primo incontro, o meglio impatto, con la morte è stato devastante: mi ha lasciato psicologicamente senza fiato e senza parole; mi sono sentita in una sorta di apnea mentale per diversi mesi. Ora, da persona più adulta, penso a quel periodo con rabbia: avrei voluto avere la testa ed il cuore di adesso, la maggiore forza e resistenza, la maggiore attenzione e generosità che contraddistinguono i miei comportamenti attuali; oh, sì, sono riuscita a stare vicino ad A. in quel periodo, ma solo a lui, di meno alla sua famiglia, di meno a sua sorella che era un pulcino bagnato ancora più di quanto lo fossi io in quella situazione, e che allora, forse, cercò in me una persona ed un conforto che non ero in grado di essere e di dare.

    La morte mi sovrastò e signoreggiò sulla mia mente, e lo fece perché non avevo il minimo strumento per conoscerla, per capirla, e mi ferì profondamente in un modo silenzioso, ferì quella spessa crosta di egoismo provocata dalla bambagia dorata nella quale avevo vissuto per anni, dove la morte l’avevo vista solo alla televisione, dove ne avevo sentito parlare a scuola, ma solo parlare.

    La morte mi fece tacitamente capire che il mio modo di amare non era forse quello più vero, perché il vero amore ha il coraggio di vivere in presenza del dolore e, quando è realmente autentico, è sufficiente per tutti quanti.

    La morte mi passò vicino, ma non mi aveva ancora preso per mano.

    Mi lasciò apparentemente libera per anni; in realtà lei camminava quietamente nei sotterranei della mia mente, sporgendosi ogni tanto per ricordarmi di non dare niente per scontato, di pregare perché non prendesse troppo presto le persone che più amavo, e per insegnarmi l’umiltà del vero vivere.

    In quel periodo scrissi questa Poesia:

     

    UNA VITA SPEZZATA (1989)

     

    Come le foglie cadono in autunno
    Federico è caduto
    da quella maledetta bestia rombante;
    i boschi si tingono di giallo e marrone
    ed il suo volto pallido,
    deturpato,
    ha l’espressione di uno che dorme;
    il silenzio piange intorno a lui
    ed un urlo invisibile di rabbia e dolore
    spezza la casa da parte a parte.
    Un’altra precedenza non rispettata

    4 COMMENTS

    1. Finalmente posso commentare, uno splinder capirccioso mi ha impedito tutto ieri di farlo.

      La morte non ci passa vicino, è in noi come la vita, anzi è la misura vera della vita perché viviamo veramente, in modo autentico e pieno, solo avendo una chiara consapevolezza della morte.

      Chi vive male, infatti, è bene farci caso, vive come se fosse eterno su questa terra… Accumula ricchezze, dice no all’amore, si chiude in un egoismo senza fine…

      Continua IlyV, ti seguiamo…

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