Arrivammo in una piccola oasi allorquando il sole, impietoso fino ad un’ora prima, si stava inabissando dietro l’orizzonte delle dune. Dovevamo trovarci a circa metà strada fra al-Farafrha ed El Kharga. V’era uno specchio d’acqua del diametro, all’incirca, di una cinquantina di metri, di forma quasi ovalare; circondato per due terzi da una doppia fila di palme altissime. Il mattino dopo saremmo giunti nel villaggio in cui ero diretto.
Omàr, il cammelliere, alle cure del quale ero stato affidato in Nunziatura al Cairo, scaricò la soma dei due cammelli e si apprestò a preparare per la notte.
Prima di noi era arrivata in quell’oasi un’altra carovana di cammelli più grande della nostra.
Fu allora che venne un arabo con un lungo kaftano color corda e disse qualcosa ad Omàr.
Eravamo stati invitati a cenare su di uno dei grandi tappeti del capo di quella carovana.
Non sapevo accovacciarmi sulle gambe incrociate, alla maniera dei tuareg. Quindi scelsi, dopo aver chiesto il permesso, per bocca di Omàr, di sedermi con gli arti inferiori distesi e la schiena appoggiata al tronco di una palma.
Sulla sinistra il tramonto ardeva, riverberando diffusamente sui nostri volti.
Eravamo una ventina di persone, seduti in cerchio sui tappeti ed, al centro, il fuoco divampava e veniva governato perché cedesse alle braci, per cuocervi sopra le carni.
Fu solo allora che notai, a destra del capo, vestito di una lunga tunica color oro, il cui colore veniva ravvivato dalla luce calda del fuoco, la presenza di una donna.
Doveva essere una persona di gran riguardo, molto vicina all’uomo alla cui destra era seduta. Forse una sua figlia, o una sua favorita, perchè, altrimenti, non avrebbe partecipato al banchetto insieme agli uomini. Le sue vesti, di un colore blu cangiante, lasciavano scoperti solo i suoi occhi. Questi ultimi, grandissimi, sfoggiavano delle ciglia scure e rigogliose, sotto a delle sopracciglia folte, lunghe e dal disegno flessuoso, ma deciso. Le pupille sembravano di velluto nero e mi fissavano,
imperiose ed immobili.
In pochi secondi riuscii a notare dei cambiamenti, in sequenza, di quello sguardo: prima risoluto ed ardente come le fiamme che vi si riflettevano sopra, ma il cui riflesso risultava come smorzato dall’intensità del modo con cui mi fissava. Poi più pacato, ma sempre fiero e penetrante. Infine quasi indulgente, in un atteggiamento soavemente nobile ed elegante.
Mi fu servito il thè che io bevvi, sbirciando, col capo chino, quello sguardo troppo esplicito per essere quello di una donna araba.
Il crepuscolo oramai era alla sua fine e già rilucevano come fari lontani le stelle, in un cielo ingigantito come da una enorme lente, tanto grande come l’intera volta dal nitido colore azzurro cupo.
Rinfrancato dalla bevanda calda e da quegli occhi che mi proteggevano, poggiai la testa sul tronco della pianta, che già sorreggeva possente il mio dorso; e chiusi le palpebre, certo di essere parte necessaria di quella scena.
Secondo brano tratto da “Aspetti dell’amore” di Sabatino Di Filippo