L’orologio su cui punto troppo spesso gli occhi durante il giorno e, talvolta, anche durante la notte, segna le ore 11,20.
Comprendo che non riuscirò ad incontrare puntualmente alle 11,30 i miei clienti che dovranno aspettarmi in studio.
Mi sono trattenuta in banca più di quanto prevedessi, cerco di dare velocità alla mia andatura come se servisse ad arrivare in orario e non sortisse invece l’unico effetto di farmi inutilmente trafelare.
La gente cammina, mi viene incontro, mi supera; è gente che come al solito, per me non ha volto, non ha storia, non ha interesse.
Saluto velocemente una persona che conosco poco ma che anche se conoscessi meglio otterrebbe da me un saluto comunque veloce e necessariamente sfuggente.
Sento una voce a pochi metri da me, è la voce di una bambina avanti a un portone.
La bimba è vestita di blu e di azzurro, blu il jeans, azzurra la maglietta. Ha capelli chiari, lunghi e ricci <<mammaaa… mammaaa… mammaaaa…>> chiama sollevando al cielo la testa verso il piano forse più alto della palazzina del centro storico di soli due piani.
<<Mammaaa… mammaaa… mammaaa…>> mi allontano mentre chiama ancora <<mammaaa,mammaaaa… mammaaaa…>>.
Non è più la sua voce, è la mia voce <<mammaaa… mammaaa… mammaaa…>>.
La palazzina di soli due piani è sul lungomare di Salerno, non è un giorno di maggio ma un giorno di febbraio e non sono le 11,30 ma è un’ora del primo pomeriggio.
Non c’è gente, non c’è traffico di auto è appena passata una carrozzella con a bordo il solo cocchiere che ha fra le mani le redini del suo cavallo.
<<Mammaaaa… mammaaaa… mammaaaa…>>. La figura di mia madre compare sul balcone, sorride io gridando per farmi sentire dico <<fai scendere Elvira, fammi portare il cappottino, fa freddo…>>. Mamma rientra. Dopo pochi minuti Elvira mi porta giù il cappotto, io lo indosso e resto sul ciglio del marciapiede mentre risale.
Di fronte a me, a pochi metri da me, lo spettacolo del lungomare con le palme sempre verdi e una distesa di acqua azzurra senza confini fino all’orizzonte. C’è il sole e, ora che ho indossato il cappotto, non sento più il freddo. Guardo distrattamente il mare come ogni giorno e sempre in maniera indifferente ed incurante perché non so che dalla mia vita, in seguito, sparirà lo spettacolo quotidiano del mare che mi mancherà per sempre, diventando oggetto di rimpianto insieme a tante altre cose e luoghi che perderò nel corso della vita.
In questo momento sento grande gioia, ho solo nove anni, fra poco arriva una carrozza con la zia Ingrid e sua figlia liana. La zia a Salerno dovrà fare delle cose insieme a mia madre e altre cugine.
Ho sentito parlare di terreni in provincia di Napoli, di vendite, di notaio. A me interessa solo che Liana e sua madre siano nostre ospiti per una settimana durante la quale starò anch’io a casa da scuola.
Elvira ha già messo il lettino accanto al mio. Le mostrerò i miei giochi. Liana è come me: adora giocare con le bambole e anche l’estate scorsa a Torino ci siamo divertite tanto a giocare nella sua casa.
Vedo una carrozza in lontananza, è una di quelle che stanno alla stazione e già altre volte la zia Ingrid e Liana sono arrivate in carrozzella. L’entusiasmo mi pervade, comincio a saltellare, a sorridere, protendo le mani per salutare. La carrozza si ferma avanti al portone. La zia è più elegante del solito, indossa una pelliccia nera e sul capo ha un cappello grigio con veletta. Liana sorride. Il biondo dei capelli, l’azzurro degli occhi la rendono tanto diversa da me che ho colori scuri come quelli di mio padre.
Dopo un attimo ci abbracciamo, io e lei, mentre sua madre paga il cocchiere che scarica i bagagli.
Liana mi consegna subito una grande scatola. Comprendo che vi è dentro una bambola.
Scendono giù mia madre ed Elvira, una per accogliere le ospiti, l’altra per raccogliere i bagagli.
Io e Liana ci teniamo per mano mentre saliamo.
Quegli attimi di vita mi danno una gioia che non riuscirò mai a dimenticare e dopo circa mezzo secolo la riprovo per un istante insieme, però, allo struggimento per Liana, quella bambina che sarebbe rimasta sempre tale, che non avrei più rivisto dopo quella breve vacanza e di cui nessuno riuscì a celarmi il male e la fine di lì a pochi mesi.
Non riesco a credere che per Liana io possa ancora piangere così.
Ora il ricordo di quegli attimi di gioia è annerito dal ricordo del dolore per Liana.
Comincio a correre, quasi per tentare, attraverso la corsa, di non farmi raggiungere dalla voce di bimba che chiama: <<mammaaa… mammaaa… mammaaaa!>>.
***
Immagine: Alisogna di Alessandro Passerini, particolare
Grazie della scelta di un mio dipinto, Elisa.
Ne sono onorato!
E complimenti per la tua Arte!
A presto,
A!
Complimenti Elisa,
E’ riusciuta a coinvolgermi nella sua storia, a rubarmi l’emozione.
Tra l’altro appofitto per ringraziarla per avermi dato l’opportunità di leggere “Il romanzo che non c’è”. Una bellissima storia, nella quale mi sono persa. Grazie.
Marinella (nonnamery)