Racconti logorati –
Macchia. Tardo autunno,
prima del calare dell’oscurità.
Le ombre del crepuscolo affaticato giocavano ingenuamente con l’eco del gorgoglio dell’acqua del grande fiume di Macchia: somigliavano alle fate delicate che rinascono col cambio di stagione. Saltavano da un lato all’altro del villaggio come immagini vaghe, e poi scendevano lentamente e baciavano le onde che pian piano si coprivano di tenebre. Il fiume scorreva come un sogno che riaffiorava dall’oblio. Dopo un po’ la nube densa e scura, quasi creata dalla saliva divina, scese e impose completamente il suo potere crepuscolare sui tetti delle case e sulle strade della silenziosa Macchia. Al villaggio mancava il respiro come nelle tarde serate dell’inverno sommerso nel ghiaccio, quando la notte, insieme al freddo secco, si estende inviolabile e la gente comincia a trovare rifugio in sé, intimorita dalla visione per-turbante, mentre prega il delirio addormentato.
È forse la collera del tempo nero? E forse un buon augurio o un respiro che brama annidarsi nell’esistenza della gente e delle cose? Sospiro perduto di distanze, gemito silenzioso dei tempi e degli orfani che si spiega e riappare ininterrottamente nel corso della migrazione degli esseri che attendono la morte? È forse il velo normale del cielo nel cambio delle stagioni? Cosa non può essere?, pensò Gjin Bardhela di Ndrè Bua Peta, mentre trascinava lo sguardo dalla finestra della stanza da dove si poteva osservare anche il Mar Ionio, per fissarlo sulla fiamma della lucerna che si stava spegnendo.
La fiamma, come una languida fantasticheria proveniente dalla profondità del mondo, vibrava davanti ai suoi occhi. La luce, quasi spenta, si sbriciolava di conseguenza, come se qualcuno, con una spada magica, la stesse sminuzzando in particelle infinitesimali. Sentì il bisogno di strofinare gli occhi, per scostare almeno un po’ il velo sottile e trasparente formato dal sudore, ma rimase perplesso: poteva non essergli rimasta più forza e non voleva aggrovigliarsi nuovamente nella ragnatela di una delusione terrificante.
Mentre contemplava la fiamma, gli sembrò che essa gli stesse avvolgendo il corpo. Il calore iniziava dalla sommità della testa e si diffondeva tortuosamente fino alle nocche delle mani e dei piedi. Ricominciava da lì per ritornare fino alla testa.
Gjin Bardhela di Ndrè Bua Peta si sentì a disagio. Perché quella piccola fiamma veniva a pesargli proprio sul cervello? Era forse la sete della morte? Probabilmente quel calore della fiamma esprimeva l’ultimo contorcimento dello spirito dentro la carne e le ossa, e dopo pochi istanti, proprio pochi, lui sarebbe diventato parte del silenzio eterno. La lucerna si sarebbe spenta nel vecchio candeliere e il silenzio gelido della stanza si sarebbe posato su di lui come una nube tesa: ogni cosa avrebbe acquistato la calma e su tutto si sarebbe innalzato il regno immenso delle tenebre. Ed è proprio lì allora che la sua anima, segretamente, si sarebbe staccata dal corpo e con un sorriso sincero sarebbe partita per il cielo infinito verso il riposo eterno.
Stese la mano in avanti fino a quando potè (o gli sembrò di averlo fatto) e toccò il suono della notte che scendeva giù come una sventura stremata. Il crepuscolo gli coprì lo sguardo, gli fermò il respiro e Gjin Bardhela pieno di rabbia colpì col pugno la coltre oscura che gli pressava addosso tutto il peso della cresta della montagna. I frammenti delle tenebre si trasformavano in una moltitudine di presenze che assomigliavano a pipistrelli dalle ali bruciate che gli avvolgevano il corpo come una tela unta di resina.
Colpì un’altra volta la ragnatela che stava sopra sospesa come la bava di una vecchia lumaca. Per un attimo immaginò l’oscurità che poteva regnare dopo la sua morte e rabbrividì. Nel frattempo fu preso da una tosse secca e rauca. Dalle pupille gli scoppiarono migliaia di scintille che sembravano delle minuscole sorgenti di lava vulcanica. Il sudore gelido gli coprì il corpo come un torrente che nasce dalla goccia minuta di pioggia. Sotto le palpebre si formarono due gocce d’acqua che gli velarono la vista. Tentò di cacciare il pensiero il più lontano possibile ma esso continuò a rodergli la testa e dopo si trasformò in un ronzio. Ogni cosa gli girava intorno come una sorta di offuscamento che scendeva da ogni parte.
– Dio mio! Io non posso morire qui. Nooo! I miei occhi rimarranno aperti! – gridò e tremò tutto. Era un fragore che faceva venire i brividi e lui si sentì quasi inesistente.
Rivolse lo sguardo alla finestra. Un piccolo scintillio gli entrò nell’anima attraverso le pupille e gli divorò i pensieri come una creatura oltre il tempo. Non tardò molto e due gocce di lacrime scesero sul viso pallido. I globuli liquidi, scorrendo giù, gli bruciarono le guance, come la fiamma della lucerna. Era proprio così che sentì il loro fuoco. Poi vide le sue lacrime moltiplicarsi velocemente e inondare tutta la stanza. E sentì anche il boato delle onde selvagge e potenti. Si vide avvolto da tutto ciò.
– Il mare! – gridò, ma non era sicuro che la voce gli uscisse dalla gola.
La sete pietrificata di Anton Nikë Berisha – Luigi Pellegrini Editore, 2013 – pag. 174
Il commento di NICLA MORLETTI
Mentre la notte al villaggio si estende tra il gorgoglìo incessante dell’acqua del grande fiume di Macchia e lente scivolano ombre simili a fate delicate al cambio di stagione, i pensieri affollano la mente di Gjin Bardhela di Ndrè Bua Peta, il protagonista di questo suggestivo ed esemplare libro, in cui la parola scritta trae forza dalle radici e dal cuore. Il mar Ionio è là, oltre la finestra, in un tardo autunno, immenso e cupo. La fiamma della lucerna si sta spegnendo lentamente sul tavolo. Da qui trae inizio un romanzo di vita e d’amore, di gioia e dolore. Pagine dense di commozione e pàthos, di ricordi e nostalgie per le origini. Una storia di radici sopite, ma non secche, semmai, come spiega Domenico Corradini H. Broussard, di radici inumidite sotto il peso della terra.
L’autore, con la sua esplicita abilità narrativa ci trascina in una lettura senza tempo: il passato e il presente si fondono ed il futuro è lì a due passi, silenzioso. Sembra quasi di ascendere dall’immenso oceano alle stelle. In Berisha c’è una ricerca linguistica straordinaria, quasi come se prosa e poesia siano un’unica cosa. E tutt’uno sono la mente e il cuore. Un romanzo che trascina, coinvolge e commuove, intriso di una forza magica, come quella della passione.
Ne ” La sete pietrificata ”
con classe innata
Berisha si lancia in un poema
che ha la vita per tema.
Lo stile e’ stabile e piano,
con contenuti da vero sovrano,
il quale incanta il lettore
e lo rende della trama il signore.
Un volume da tener in libreria,
in bella mostra, e con vanteria.
Un’ opera che i secoli sfidera’,
e ai posteri si offrira’
per rammentar un tempo andato,
in cui non c’era posto per il Fato,
ma solo la Ragione governava
e col cuore spesso filtrava.
Gaetano .
Mentre lo leggi ti immergi in un insieme di sensazioni che ti spingono in più direzioni,ti sembra di leggere una poesia,un romanzo,una fiaba,e sembra persino di vedere un dipinto.
Sarebbe interessante proseguire la lettura.
Complimenti
Barbara
Quando Leggere è un piacere per i sensi e non solo per la mente. La penna di Anton Nikë Berisha lascia una sensazione di piacere già durante la lettura delle prime righe … Quello che si dice un Maestro