Le radici dell’erba di Bruna Spagnuolo

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Il suono del tamburo cadde sulla gente come il tocco di un dito silenziatore e incollò gli occhi dell’uditorio allo spiazzo antistante la casa. Un intervallo ritmato funse da gong introduttivo, poi tacque e lasciò l’aria vuota di suoni e pronta a riempirsi di imprevedibili malie. Ebenyin avvertì quel silenzio come un brivido di aspettativa e quasi di timore e, quando un fruscio di chakachaka si snodò sul pavimento, lo sentì giungere dall’interno della casa ed ebbe l’impressione che fosse un venticello capace di trasformare l’erba in corde sottili e risuonanti come quelle degli antichi piccoli strumenti a corde chiamati mmlo.
Il suo cuore si riempì di meraviglia e quasi gli suggerì di fuggire, prima di vedere quale creatura potesse camminare con la leggerezza di un frullo d’ali. Il mondo circostante, fatto di occhi ingenui, sudore, polvere e case piene di voci e di miserie umane, scomparve del tutto. Nulla esistette, in quel pomeriggio nuvoloso di un giorno di mercato, in Ukpah, tranne lo spiazzo antistante la casa che ospitava le iwali.
Le due vergini danzatrici, la cui presenza ancora invisibile già riempiva il cielo, furono le sole creature che contassero nel creato. La gente parve attenderle e chiamarle con la mente e con il cuore. Ebenyin dimenticò tutto il mondo e fu consapevole soltanto del piccolo spazio che avrebbe fatto da palcoscenico a chi faceva risuonare quei chakachaka.
Conosceva bene i chakachaka, da quando era piccolo. Aveva anche visto i suoi fratelli Ojang e Ogbaka confezionarli, con frange di foglie di palma ripiegate e abilmente intrecciate in piccole sacche contenenti sassolini risuonanti, e indossarli come cavigliere, ma, lì e in quel momento, dimenticò ciò che sapeva e chi era e si abbandonò allo stupore.
Il silenzio del tamburo parve attendere che lo swish dei chakachaka, simile al frinire forte di centinaia di grilli, andasse ad assopirsi sul cielo arrossato, poi fu seguito da una scarica di battiti frenetici delle bacchette impazzite, che fece sussultare l’uditorio. Ebenyin capì che quello era l’annuncio dell’entrata in scena delle iwali. Una soltanto fu la fanciulla annunciata dal tamburo. Apparve e basta, come se fosse spuntata dal nulla, con una folata di aria profumata. Era lei l’aria profumata che aleggiava e avvolgeva i presenti in una bolla di atmosfera irreale. Era vestita di un piccolo top e di un gonnellino pieni di lustrini. Aveva chakachaka luccicanti alle caviglie e ai polsi e i capelli e tutto il corpo rivestiti di corolle leggiadre di frangipane rosato. Il giovane corpo snello e longilineo era uno spettacolo di indicibile bellezza e il viso aveva lineamenti sottili, delicati e semplicemente perfetti. Ebenyin rimase a bocca aperta, conscio soltanto del fatto che, da quel momento in poi, avrebbe saputo esattamente come dare corpo alla parola bellezza e della percezione che l’uditorio, stregato da tanta grazia raffinata, fosse come sospeso su una nuvola dalla quale non avrebbe voluto più scendere.
L’inizio della danza colse Ebenyini di sorpresa e lo lasciò letteralmente privo di difese. La vergine mosse le braccia come ali di farfalla e i piedi nudi come gocce rimbalzanti di pioggia leggera. Arcuò, piegò, annodò, avvitò, spezzò il suo esile corpo duttile e bello come giunco miracoloso e come oro fuso. Il tamburo servì soltanto a delimitare gli spazi d’aria tra i vari set completi delle volute leggere che la giovanissima iwali pareva disegnare e lanciare nell’aria. La vera musica la creavano le gambe e le braccia della fanciulla, che davano ai chakachaka cadenza obliante di orme di sabbia intente a tornare al passato dal quale erano nate.
Ebenyin si portò inavvertitamente la mano al petto, come per sostenere il suo cuore sospeso su un presagio che pareva prendere forma in un qualche dove quasi impossibile da intuire eppure in cammino come un sospiro. Ebbe la sensazione che la bellezza pura della vergine s’ingigantisse quasi fino a minacciarlo. Portò ambo le braccia al petto e le incrociò, come estrema chiusura-difesa contro ciò che sbocciava nel suo cuore, lì e allora, e che lo avrebbe abitato per lunghe e incalcolabili stagioni (come messa a dimora e ricerca della fanciulla dei suoi sogni e delle trame intricate del destino). Ebenyin socchiuse gli occhi e ascoltò la scarica frenetica del tamburo, che ricreava l’aspettativa iniziale; quando li riaprì, la seconda vergine era comparsa sulla scena. Era vestita come l’altra iwali, ma era ricoperta della malia dei fiori dell jakaranda. L’azzurro di quei piccoli fiori profumati, sul giovane corpo statuario e bello rivestito di lustrini, era uno spettacolo indescrivibile. Ebenyin ebbe l’impressione che l’uditorio smettesse quasi di respirare e vide il giovane che aveva parlato prima cadere in ginocchio, sussurrando al suo amico: «Devo sedermi, perché mi sento svenire. La bellezza di questa queen dancer è così grande che guardandola potrei anche morire. Un giorno avrò il suo amore e lei avrà il mio, mark my word, my friend, ricorda le mie parole o vieni al mio funerale». La fanciulla volteggiò, con impareggiabile leggerezza, diffondendo nell’aria il profumo del jakaranda e le scie azzurrate del suo colore. Saltò come gazzella fatta d’aria e parve poter camminare sul vento. Seguì il ritmo del tamburo che, d’improvviso, divenne come un mulinello risucchiante, e girò su se stessa a lungo, elargendo grazia e armonia.

***
Dal libro Le radici dell’erba di Bruna Spagnuolo – GRUPPO ALBATROS IL FILO, 2010 – p. 305

Il commento di NICLA MORLETTI

Il sapore e il fascino dell’Africa sono racchiusi in questo libro, che non è solo romanzo, ma anche saggio e dossier geografico letterario. Aleggia tra le pagine un lirismo colmo di nostalgia che cattura il cuore. “Le radici dell’erba” narra la storia di un personaggio africano e del suo popolo. Gli ingredienti sono molteplici: misteri, colpi di scena, descrizioni magiche con un finale tutto a sorpresa. L’autrice che ama profondamente l’Africa e lo si sente leggendo le pagine, svela anche segreti tribali ignoti al mondo. “Le radici dell’erba” reca in sé sapori ed emozioni nuove e indimenticabili, frullii di ali e una folata di vento dal profumo di ipem e plantain. In lontananza il risveglio della foresta e l’incantesimo di una terra magica con il segreto delle danze rituali e delle leggende. Un libro che rapisce il cuore.

10 COMMENTS

  1. Un viaggio in un continente per me del tutto sconosciuto, che vorrei leggere per ritrovare il profumo di una terra immensa e sognata. La bellezza rigogliosa della natura, la fauna, gli usi e i costumi di popoli lontani sono gli ingredienti giusti per un grande romanzo. Complimenti, mi auguro di leggerti e di ospitare il tuo libro nella mia biblioteca del cuore.

    • Caro Ienio,
      ti ringrazio della nota dal sapore letterario intenso dedicata all’Africa (la “mia”)/ quell’Africa così piena di selvaggio fascino e di paradossi-squallori dolorosi (che proprio in questi giorni hanno immolato i miei due amici Lamolinara e Mcmanus). Questa è l’Africa de Le radici dell’erba: grande, sterminata, pullulante di vita, di colori, di suoni, di piedi in cammino e… di miseria infinita che spiana la spiritualità e la cultura e abbrutisce gli ultimi della terra…
      Grazie anche della tua biblioteca del cuore…
      bruna S.

  2. Un viaggio musicale nell’Africa selvaggia.Leggendolo, si è pervasi da autentica poesia, un invito a continuare la lettura!

    • Grazie, Laura, per la “musica” che hai scovato e sentito… L’Africa è proprio questo: la musica della sua grande terra (racchiusa nei cieli dell’alba, del meriggio e del tramonto/ nei corsi irruenti dei fiumi/ nelle assenze ormai assordanti di molte specie animali/ nelle incongruenze pur sempre africane e impregnate di profumi d’Africa/ nelle folle colorate dei festival africani e dei loro rituali unici al mondo/ nei richiami dei muezin alla preghiera/ nei campanili stranamente a casa nell’Africa della terra rossa e della polvere onnipresente/ nei piedi scalzi dei bambini e dei vecchi “randagi”/ negli sguardi estremamente mobili degli Africani con i piedi saidamente abbarbicati alla loro terra donatrice di igname e di calabash da trasformare in sculture)/ma… tutta la vita umana, in fondo, è musica (sia nella gioia che nel dolore), se ci si pensa bene. Ciao. bruna

    • La tua breve frase, caro Bartolomeo, dice più di quello che contiene e contiene più di quello che dice. L’immagine di copertina ritrae l’ora particolare in cui l’Africa si “organizza”, si prepara al “ritorno a casa”. Quella foto celebra l’alone di misteriosa atmosfera e di quasi oblio che scende su tutto e su tutti insieme al crepuscolo e che, in Africa, in modo speciale, si fa voce del tempo medesimo e si diluisce nel pulviscolo che impregna gli occhi delle creature viventi (rendendoli acquosi e sognanti) e va a pervaderne gli animi della nostalgia di non si sa che cosa. Quell’ora precede la caduta del buio che, in Africa, come in nessun luogo, scende d’improvviso, cogliendo tutti, sempre e immancabilmente, di sorpresa, come la leggerezza silenziosa e imprevedibile del ghepardo solitario e altero. Posandosi sulla copertina de le radici dell’erba, il tuo sguardo ha percepito il magnetismo possente di quell’ora straordinaria e bella (che rende l’Africa più Africa che mai). Ciao.
      Bruna S.

    • Cara Cristina,
      le tue parole racchiudono la sintesi delle sensazioni dalle quali ti sei lasciata abbracciare e guidare, entrando nell’invisibile evocato dalla parola scritta. Ti nomino, per questa tua dote preziosa e nobile, cittadina onoraria del mondo dei suoni africani (fatto del brusio delle voci della foresta, dello scroscio delle acque, del tintinnio dei sonagli dei danzatori e dei guerrieri, del richiamo dei bambini e delle madri, del rimbombo dei pestelli nei mortai, dell’insegnamento degli anziani sotto i cieli stellati e delle infinite canzoni dei tonfi leggeri dei frutti maturi e del frullo d’ali delle miriadi di insetti e di uccelli multicolori).Ciao. Bruna S.

  3. Bruna,
    leggendo il tuo incipit sono andata con il pensiero ai libri della serie
    “La mia Africa” e alle parole degli amici che seguono le missioni in
    Tanzania: “il grande rischio è di non tornare più…”.
    L’attrazione fatale dell’Africa si evince già dalle prime righe, coinvolge,
    seduce, ipnotizza.
    Tu illustri una scena di danza e io avverto il profumo intenso dei fiori,
    l’atmosfera di magico surplace, la ventata di poesia, di arte, di languore…
    E immagino il tuo viaggio tra le pieghe di questo paese misterioso e
    struggente.
    La mia mente ha danzato grazie al tuo stile fluido,lieve e intenso al tempo stesso,
    robusto nell’impianto narrativo.
    Mi hai conquistata!

    • Grazie, Maria, e… benvenuta nella “mia” Africa (piena, sì, di grandiosità e di diversità-cultura-bellezza-conoscenza-saggezza antica, ma anche di infinite atrocità, purtroppo). Grandi sono i cieli d’Africa e colpiscono lo sguardo, con la loro ampiezza a misura di anfiteatro senza fine. Grandi sono, ahimè, anche le povertà e le abiezioni in cui si annida ogni genere di pericolo e di strumentalizzazione (in cui il singolo dal cuore buono e aperto all’amore universale poco o nulla può e spesso soccombe, come i miei amici Lamolinara e Mcmanus-di cui parlo per esteso in http://www.brunaspagnuolososvoliindistress.com). Le tue parole sono come lo stormire dei flamboyant dai rami infiammati e leggiadri dell’Africa che il tuo animo canta. Grazie. bruna S.

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