La croce sul monte
“A volte penso che dovrebbe esserci una regola di guerra per cui bisogna vedere qualcuno da vicino e conoscerlo prima di sparargli”
(dal film M*A*S*H*)
C’era un’afa fastidiosa nella trincea quel pomeriggio del mese di luglio del 1916.
Un’aria immobile, inerte, che favoriva il rilassamento delle membra per stanchezza.
Che giorno era?
Tu non ricordavi la data esatta, verso la metà del mese, giorno più giorno meno.
Le giornate non le contavi più, tanto che senso aveva: i cambi, in prima linea, non venivano più programmati.
Il tempo non era più regolato dal normale calendario.
Trascorreva solo in attesa di eventi quasi sempre drammatici.
Quel “buco” angusto nell’anfratto della roccia e quel tortuoso budello di trincea, erano la tua abitazione da parecchi mesi, lassù, oltre i duemila metri, sul ghiaione antistante la sommità del Passo della Sentinella, occupato dagli Austriaci.
Ci vivevi malamente e avevi ragione.
Sognavi gli agi che avevi goduto a casa tua, una misera casa di campagna, priva di ogni elementare servizio igienico, ma con il privilegio che l’acqua del torrente abbondava e l’aria era fresca, respirabile e non eri costretto a sopportare, in continuazione, i miasmi dei morti dissepolti nella terra di nessuno e quelli, nauseabondi, dei vostri escrementi.
Passava lento il tempo, lassù, apparentemente tanto vicino al cielo!
Assalti non se ne erano verificati negli ultimi giorni e quell’inedia, se procurava un po’ di tranquillità, accentuava il disagio di quello sfasciume materiale e morale.
Quel giorno il sole era opprimente, batteva veramente forte.
“Scottava” come al tuo paese, in Romagna (“Romagna solatia…” diceva il poeta di casa tua, ma tu non conoscevi i versi del Pascoli, non li avevi mai letti!).
Tu e i tuoi camerati, non sapevate come passare le ore e allora cantavate perché, nonostante ciò che vi circondava e la morte fosse sempre in agguato, avevate solo vent’anni e a vent’anni si ha la forza, quasi il dovere, di cantare, in qualsiasi situazione!
Cantavi, ma era solo una voce che usciva dalla bocca.
Avevi imparato a conoscere la tristezza, quella cupa e diffusa malinconia che attanaglia l’intimo e che provoca amarezza e pensieri spiacevoli.
I tuoi occhi erano alla ricerca di qualcosa che potesse distrarre la mente, allontanare, o sottrarre momentaneamente, qualsiasi dolorosa situazione.
Vedesti una piccola lucertola, immobile, che si crogiolava al sole.
Era lì… proprio vicino al reticolato, con le sue minuscole zampette aggrappate al terreno.
Ti guardò sorpresa e incominciò a roteare gli occhi.
Da bambino ti piaceva pigliarle per la coda, vero?
Ti venne spontaneo quel gesto, era un gesto suggerito da nostalgici ricordi.
Ma fu un movimento imprudente!
Sporgesti appena la testa, oltre i sacchetti di sabbia che proteggevano la trincea, per afferrarla.
Non sentisti neanche lo scoppio.
Fu un attimo, fra una nota e l’altra della canzone.
Ti avevano insegnato quella canzone perché dovevi cantarla insieme agli altri, mentre marciavi verso il nemico e anche quando la nostalgia ti portava a pensare a casa.
Non dovevi pensare a casa! Mai!
La tua casa, ora, era quella lurida trincea!
Non conoscevi neanche il nemico.
Non avevi nemici, tu!
Ma dovevi odiare quelli che ti stavano di fronte perché, ti assicuravano, loro odiavano te!
”Ma se non li conosco neppure!” obiettavi.
Avevi vissuto in quel paesino sperduto nella grande pianura ed al bar eri amico di tutti.
Non ti interessavi dei problemi delle persone istruite.
Tu, sapevi appena leggere!
La politica non la capivi: la consideravi riservata a quelli che usavano certe parole diffìcili, incomprensibili per te, e a quelli che sfogliavano il giornale.
E molti litigavano per questo.
Tu certamente non partecipavi a quei discorsi.
Un giorno, però, a causa di queste chiacchiere, ti trovasti una cartolina rosa fra le mani: dovesti presentarti al tuo distretto militare, fosti costretto a partire per la guerra.
“Che c’entro io con la guerra?” ti chiedesti.
Nessuno ti dette una risposta.
Ti imposero di partire e basta!
E tu dovesti ubbidire!
Era la prima volta che ti allontanavi dal paese.
Ti trovasti con tanti giovani come te, spaesati e frastornati, in un’ampia caserma, un ambiente tetro e grigio, dove era imposta una rigida disciplina.
Ti consegnarono una divisa grigio-verde, un berretto con una penna.
“Sei un Alpino” precisarono.
Non sapevi dove erano le Alpi, ma non era un problema di geografia.
Neanche in montagna eri mai stato… Ma diventasti, ugualmente, un Alpino… addirittura un Alpino del valoroso Terzo Reggimento.
“Un onore. – ti dissero: – Devi andarne fiero!”
Ma tu non capisti il perché!
Ti insegnarono a marciare, a tenere il passo con gli altri, a cantare inni pieni di entusiasmo, di gloria, ma tu non riuscisti ad esaltarti.
Non ti riusciva di concentrarti sulle parole della canzone e, contemporaneamente sincronizzare il passo di marcia.
Avevi sempre il piede fuori posto e il tuo sergente ti rimproverava e ti chiamava lavativo, ma non eri uno scansafatiche: tu ce la mettevi tutta ma non ti riusciva quel compito difficile.
Eri abituato ad un passo diverso: quello scandito dalle tue mucche quando eri intento ad arare i campi… era il vostro passo, perbacco, e nessuno ve lo criticava!
E poi, non eri abituato a marciare con quegli scarponi chiodati a quattordici punte, con quelle pezze ai piedi al posto dei piedi nudi, con le fasce a striscio da adattare strettamente alle gambe, con le giberne che ti stringevano la cintola.
Eri molto impacciato.
Troppe cose da controllare: il fucile a tracolla che tendeva sempre a scivolare dalla spalla, quella baionetta che sbatacchiava al fianco, quello zaino che gravava sulla schiena, la gavetta, la borraccia sempre fuori posto, la maschera antigas e per di più con quel cappello troppo largo per la tua testa e che tendeva a caderti sulle ventitré.
Sì… eri veramente un po’ ridicolo, non eri marziale come si pretendeva da te.
Ma ti ritennero ugualmente capace per la guerra e ti spedirono al fronte.
***
Cent’anni dopo
di Bruno Longanesi