Le ore del mattino hanno l’oro in bocca
“Le ore del mattino hanno l’oro in bocca”: era un proverbio caro agli antichi che esortava a fare buon uso delle ore mattutine.
Esse sono le più preziose della giornata, le migliori per lavorare in quanto cariche di energia.
Il significato è immediatamente comprensibile.
Quando si è freschi e riposati, dopo un sonno ristoratore, si hanno le idee maggiormente chiare per assumere le decisioni più vantaggiose.
Ogni nuovo giorno che inizia può realmente portare qualcosa di buono. L’adagio deriva dal latino “aurora aurum in ore habet”.
Secondo un’etimologia di carattere popolare fondata sull’allitterazione delle parole, il vocabolo aurum si è congiunto nel tempo al termine aurora perché, come sottolineava già Marco Terenzio Varrone, il sole infuocato al suo sorgere sembra indorare l’alba e l’aria. E una metafora connessa a un’arcaica rappresentazione poetica dell’aurora, dipinta nei colori simili a quelli dell’oro fin dall’epoca di Omero.
“Il mattino ha l’oro in bocca” per chi è attivo dalle prime luci dell’alba e sa trarre da una solerte operosità proficui benefici per il lavoro. D’altronde, si dice pure che “il buon giorno si vede dal mattino”, cioè dai primi accenni si può intuire l’esito di qualcosa: la bontà del pane preparato dai fornai, per esempio, o dei manufatti delle botteghe artigiane.
Anche in Inghilterra è presente un simile detto: “an hour in the morning is worth two in the evening”, ovvero un’ora del mattino è migliore di due della sera, poiché rende di più.
Allo spuntare del giorno si lavora meglio, lo sapevano bene i contadini del passato e lo sanno tuttora, dato che iniziano presto la loro fatica quotidiana; ad esempio accudire gli animali e lavorare i campi, assicurando a se stessi e alle loro famiglie il necessario per vivere.
Quella rurale era, tuttavia, una civiltà di tempi lenti.
Nelle odierne e veloci mattine che spesso hanno l’amaro in bocca, è lecito porsi il dubbio se le frenetiche prime ore di vita metropolitana siano più o meno invidiabili rispetto a quelle antiche e campestri che avevano l’oro in bocca.
Auguriamoci che le nostre ore abbiano in bocca almeno un po’ d’argento.
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La vispa Teresa
“La vispa Teresa avea tra l’erbetta al volo sorpresa gentil farfalletta”: è l’incipit dell’antica filastrocca “La vispa Teresa”, una tra le più note poesie per bambini dell’Ottocento.
La scrisse il poeta milanese Luigi Sailer, forse dedicandola a una principessina di Savoia, ed è ambientata nello splendido scenario di un fiorito prato italiano.
Già dai primi versi si entra nel cuore della storia.
Una briosa fanciulla amante della natura, Teresa, correndo su un prato nota una bellissima farfalla colorata nel verde intenso dell’erba, l’afferra tra le sue dita e tutta giuliva, stringendola viva, grida a distesa “L’ho presa! L’ho presa!”.
L’espressione di vittoria per il risultato ottenuto rimanda, tuttavia, all’insito istinto umano teso alla conquista.
La gioia della piccola per un fatto in apparenza banale è trascinante, e il suo festoso entusiasmo si distende sul campo.
Ma la parola viva rende bene l’idea della farfalla che cerca di liberarsi dalla stretta, anche se di una giovane mano innocente.
Mentre Teresa felice trattiene il volatile fremente, in modo inatteso, a lei supplicando la “bella” gridò: “Vivendo e volando che male ti fo?”.
All’udire queste parole la bambina resta turbata e inizia a riflettere su quello che la farfalla continua a dirle: “Tu sì mi fai male stringendomi l’ale, deh, lasciami, anch’io son figlia di Dio”.
Questa preghiera sconsolata della farfalletta tocca il cuore di Teresa e le fa considerare l’importanza di rispettare tutte le creature viventi del mondo naturale, le fa capire il danno del suo gesto verso quell’indifeso piccolo essere.
Quindi Teresa allenta la presa: ‘“Va’, torna all’erbetta, gentil farfalletta’. Confusa, pentita, Teresa arrossì, dischiuse le dita e quella fuggì”.
Questo squarcio di vita agreste, presentato come una canzoncina educativa per bambini, apre una meditazione sui rapporti tra l’uomo e la natura, sulla sensibilità e sull’amore che dobbiamo nutrire verso l’ambiente che ci circonda.
La morale è: avere rispetto per gli altri, soprattutto per i più deboli, gli svantaggiati, noi stessi, il Creato e la sua bellezza.
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Atmosfere
di Daniela Quieti
2014 pag. 54
Edizione Tracce
Il commento di NICLA MORLETTI
Daniela Quieti con questo libro in cui raccoglie proverbi, filastrocche, leggende, culti, superstizioni e modi di dire di un tempo che fu, crea delle vere e proprie atmosfere particolari. Si rimane conquistati dal suo narrare schietto e genuino nella “riscoperta e valorizzazione dei molteplici aspetti della cultura e delle tradizioni storiche, mitiche e popolari per conservarne la memoria e riproporne le peculiarità ai lettori contemporanei, soprattutto alle giovani generazioni”, come scrive Ubaldo Giacomucci nella introduzione. Il proverbio è un detto sintetico che ha, o a cui si intende dare, valore di principio universale. L’autrice ci conduce per mano attraverso uno straordinario viaggio nel tempo tra suggestive atmosfere, odori, sapori e luoghi dimenticati. Ci ritroviamo così ad ascoltare il rumore dei ruscelli, il frusciare delle foglie sugli alberi, lo scoppiettio della legna che arde nel camino, tra storia e mito, sacro e profano, divino e terreno. E così ci troviamo a riscoprire la bellezza e la saggezza dei proverbi che rimanda anche alla sapienza dei proverbi di Re Salomone. “Le ore del mattino hanno l’oro in bocca” ci ammonisce a fare buon uso delle ore mattutine, così come: “Acqua passata non macina più” perché l’acqua ormai passata appunto oltre la ruota del mulino non è più in grado di far muovere la mola e perciò di macinare il grano. È così anche per fatti e avvenimenti che non hanno più effetto dal momento in cui sappiamo che non si ripeteranno più. I proverbi sono tantissimi: “Chi semina vento raccoglie tempesta” e “Chi dorme non piglia pesci”, ma anche “Una ciliegia tira l’altra.” Una lettura molto piacevole dal sapore di pane, farina e olive, di cose buone per il palato, ma soprattutto per l’anima, che ci ricordano che “la parola è d’argento, il silenzio è d’oro.” A questo proposito l’autrice ci ricorda il dannunziano canto “La pioggia nel pineto”: “Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane…”.