La ragazza giaceva riversa ai piedi della grande quercia.
Abiti strappati, ferite in tutto il corpo, gola squarciata. Uno spettacolo raccapricciante. Il commissario Biffi si chinò ad esaminare il cadavere, rimanendo a lungo curvo su di esso. Finita la ricognizione, si tormentò i baffi in atteggiamento pensoso. Aveva raccolto da terra un biglietto d’autobus e con gesto distratto se l’era messo in tasca. Faceva molto freddo, sebbene si fosse solo alla metà di novembre. Un venticello gelido scuoteva le chiome degli alberi, scompigliava i capelli della povera morta. Un viso pulito, semplice, senza trucco. Sui vent’anni, l’età di sua figlia. Un pensiero che lo rabbuiò. Che gli fece provare una tenerezza rabbiosa per la vittima.
Un triste mestiere il suo. Grazie al quale aveva conosciuto gli esemplari più eterogenei dell’umana malvagità. Un campionario di violenza e di ferocia a cui, nonostante i lunghi anni di servizio, non si era ancora abituato. Come se la follia del male non finisse mai di sorprenderlo. I suoi colleghi lo chiamavano “Schopy” per la tristezza con cui conduceva le indagini. Un soprannome che gli calzava a pennello. Che cercava di scrollarsi di dosso solo quando, terminate le ore di lavoro, tornava a casa. Allora, per le sue donne, esibiva un affettuoso sorriso ed una serenità che non gli apparteneva.
Ed ora, dinanzi a quel giovane corpo senza vita, si sentiva pervaso da un senso di smarrita solitudine. Come se la crudeltà dell’uomo lo avesse, ancora una volta, trovato impreparato. I pensieri gli mulinavano in testa in maniera incontrollata, si ramificavano in ipotesi, percorrevano sentieri azzardati. Qualcosa gli era sfuggito, lo sentiva. Ma non sapeva cosa. Non era una certezza, solo una sensazione.
La voce del poliziotto Rizzo lo distolse dai suoi pensieri.
Teneva una borsetta in mano e gliela stava porgendo.
«E’ stata trovata in una buca, ai piedi di una piccola scarpata» disse, mentre con la mano indicava il pendio di una collinetta. La borsetta appariva tutta ammaccata e coperta di terra. «L’assassino voleva sicuramente interrarla, – aggiunse – ma qualcosa lo deve aver distolto dall’operazione ed allora è fuggito».
«Già» disse Biffi e si diede ad esaminarne il contenuto.
Poche cose: un rossetto, un pettine, una boccettina di profumo.
Un portamonete con dentro alcuni spiccioli e la tessera sanitaria. Su cui erano impressi i dati anagrafici della vittima: Letizia Viani, anno di nascita 1987. Un nome che forse le era stato imposto come un augurio e che ora invece suonava come una beffa. Mancava solo l’indirizzo, elemento non contemplato nella tessera. A parte, in una tasca interna, due fogli scritti con una grafia minuta e sottile che il commissario si affrettò a mettere in tasca. Appunti, annotazioni, calcoli, preventivi. Presumibilmente il lavoro di una segretaria.
La ragazza dunque si stava recando sul posto di lavoro. E forse, per abbreviare la strada, aveva scelto di passare per il parco che, tagliando in diagonale la città, collegava la periferia con il centro. Una comoda scorciatoia per chi non possiede una macchina e, forse, neppure un motorino.
Il commissario la immaginò, mentre camminava per i vialetti del parco, a passo sostenuto. Scarpe da tennis, jeans, maglietta a giro collo. Sopra la maglietta un giaccone impermeabile, insufficiente a ripararla dal freddo. Una ragazza forse di periferia, forse al suo primo impiego. Con la testa piena di speranze, di progetti per il futuro. Ed ora per lei, per Letizia Viani, il futuro invece non c’era più. La sua vicenda terrena era finita lì, in quel parco, sotto la grande quercia. Fine dei sogni e di quel senso d’attesa che sembra riempire di sé la giovinezza. Fine di tutto. A soli ventuno anni.
***
Dal libro Donne e Delitti di Giuliana Colella
«Le figure femminili che popolano i racconti di Giuliana Colella, anche quelli che abbiamo voluto definire “gialli”, sono estremamente umane e attuali: donne che lottano per la sopravvivenza della loro identità, della loro integrità fisica, morale e psicologica, e non esitano a cercare vie d’uscita alla disperazione che le avvince, anche a costo di pagare un caro prezzo per quella che l’universo maschile, o meglio maschilista, considera una insubordinazione nei confronti di regole codificate dall’uso sociale».
(dalla prefazione di Rina Gambini)
Cara Giuliana,
il tuo racconto è un flafh del mondo moderno. Dell’importanza relativa che si attribuisce alle vite. E di quanto le donne, in questa ‘roulette russa’, che spesso caratterizza il quotidiano, abbiano meno chances di farcela, nonostante il femminismo e le facili parole.
Sei un’artista che attraverso l’intimismo delle vicende gialle evidenzia quanto possano diventare esili le trame delle giovani esistenze.
Induci a riflettere sul valore della vita… Su quanto influisca sul nuovo modo di porsi di fronte ai delitti, alle scomparse, al sangue, una società di carta velina.
Una società che si straccia troppo facilmente…
Complimenti. Hai uno stile rarefatto che crea un magico contrasto con la crudezza della storia!