Se avessi voglia di raccontare una storia, racconterei quella di Carla, profondamente radicata nella mia memoria per i significati che, pur nella banalità dello svolgersi dei fatti, ho sempre considerato un esempio di come si possa inseguire, all’orizzonte, la propria infelicità. O forse il contrario. Chi può dirlo?
Conobbi Carla al Lido di Camaiore molti, molti anni fa. Allora ero un giovane sottotenente in servizio al 1°/8° di Lucca. Nelle sere d’estate, liberi dal servizio, amavamo compiere, noi giovani ufficiali, qualche escursione in Versilia. Passeggiando per via del Fortino avevo conosciuto, per caso, quella splendida signora. Molto, molto più anziana di me, aveva raggiunto una maturità rigogliosa. Bruna, truccatissima, usava un profumo che stordiva. Rideva in modo contagioso e per passatempo, più che altro, visto che il padre era un alto funzionario ministeriale, aveva aperto una boutique nella via principale del Lido. Lei dipingeva, scriveva favole per bambini e per me, poeta non solo nell’anima, non fu difficile (forse giocò a mio favore il fascino della divisa) invitarla a cena malgrado – e si vedeva assai bene – fossimo una coppia tutt’altro che ben assortita. Ero, allora, un “garibaldino” verace, capace – cioè – di andare, all’arma bianca, all’assalto di qualunque fortezza. Ma lei mi frenò subito. Il marito, mi raccontò, l’aveva abbandonata per una giovanissima donna delle pulizie. Una mortificazione ancor più grave, questa, visto quanto Carla teneva al suo rango in società. Se n’era andato all’improvviso, lasciandola con le sue due figlie adolescenti, procurandole una lacerazione profonda. Non cercava storie, mi disse. Perché sapeva, “sentiva” che la vita l’avrebbe ripagata con un incontro che avrebbe esorcizzato i suoi fantasmi. Così avrebbe fatto conoscere il suo nuovo uomo alla sua famiglia. Si sarebbe sposata ancora, con tutti i crismi della legalità e, forse, con l’abito bianco, con una grande festa e tutti gli amici che avevano pettegolato di lei e dell’abbandono. Sarebbe stata felice, allora, e le sue figlie avrebbero avuto finalmente un padre che si occupasse di loro.
Quella sera, a quel tavolo di un ristorantino un po’ bohemien, di fronte al bicchiere della staffa, mi sentii piuttosto sciocco. Io, alla Carla, della quale apprezzavo, sì, la sensibilità d’artista, ma i cui seni pesanti e la cui carne esuberante accendevano in me fantasie più immediate, assai prosaiche, seppure anche intensamente poetiche, tutte quelle cose non potevo certo prometterle. Per carità. Se dopo cena fossimo finiti in un angolo deserto della spiaggia, con la complicità della luna e del rumore lento della risacca, non sarei certo fuggito. Anzi. E poi, malgrado fossi molto giovane ero già un giornalista, oltre che un militare. E nei due ruoli conoscevo parecchia gente, ero ammesso in molti ambienti, estranei alla signora che avevo davanti e che avrebbe potuto, poi, parteciparne. Magari avrei curato una sua mostra o presentato le sue novelle al mitico Caffè Letterario della Giubbe Rosse, nella Firenze già capitale della cultura europea, dov’ero già allora di casa. Difficilmente, a causa delle troppe ricorrenze che ci dividevano, sarei andato a conoscere i suoi genitori, ma le avrei offerto comunque qualcosa d’importante, non solo i miei assalti e le gite sul mio coupé bianco con gli interni rossi e che odoravano di pelle e attiravano, allora, tante altre ragazze della mia età. Carla, però, non poteva essere distratta dalle sue attese. O meglio, dalle sue certezze. Così ci salutammo.
Passarono gli anni, una decina, forse, e mi capitò di parlare con qualcuno che conosceva quella bellissima donna i cui seni, più che il resto, mi avevano suggestionato tanto che scherzosamente, quell’unica e ultima sera, le avevo detto che, guardandola, mi sembrava d’essere entrato in una nuvola e d’aver perso, così, la strada del ritorno. Una battuta che l’aveva fatta appena sorridere. Seppi che Carla era sempre al Lido. Aveva lasciato perdere la boutique e aspettava il suo “lui”, certa di quest’incontro, nella sua villa circondata dal verde, da sola. Il babbo e la mamma non c’erano più. E una figlia si era sposata con un brillantissimo professionista in carriera. L’avevo incontrata, tempo prima, a una manifestazione culturale in Versilia, sul futurismo, mi pare. Era diventata davvero forse ancor più bella della madre e avevo confessato a me stesso (ma a mezza voce, perché non era il caso) che era quasi adatta per un corteggiamento. Decisi di ritelefonare a Carla che mi accolse, col suo fare dolce e un po’ languido, a casa sua. Un po’ in penombra, perché la luce e la maturità ormai troppo sottolineata, in una donna, non vanno d’accordo. Ma la invitai di nuovo, questa volta per la giuria di un premio che stavo organizzando a Viareggio. Ne fu contenta, lavorammo per qualche ora insieme, e ci trovammo di nuovo a cena. Ma se mi ero illuso di fare breccia nei suoi sogni, mi ero sbagliato. Lei, mi assicurò, era certissima del fatto che la vita, sia pure in ritardo, le avrebbe restituito ciò che le aveva rubato molti anni prima. Il suo grande amore non si sarebbe fatto attendere molto.
Così quello spicchio di luna che avrebbe potuto illuminarci se fossimo andati insieme sulla spiaggia si spense di nuovo e non ci vedemmo più, ancora per anni. Fino a che, avendo io la barba bianca e capace solo di “garibaldinismi” mirati, in condizioni d’assoluta superiorità tattica visto che gli assalti, in battaglia, non sono direttamente proporzionali al grado, ma semmai il contrario, ritrovai ancora per un gioco del destino l’ormai ex splendida bruna alla quale le tinture avevano bruciato i capelli e le rughe, impietosamente, avevano disegnato sul volto la mappa delle sconfitte esistenziali e delle speranze irrealizzate. Parlammo di banalità e non ebbi il coraggio di dirle che mesi addietro avevo rivisto sua figlia, quella incontrata una sera al Grand Hotel straordinariamente bella, in visone, in una trattoria non lontana. Faceva la cameriera. Si era separata, mi aveva detto. Ma quel lavoro che stava facendo era solo un ripiego. Avrebbe riacquistato presto – mi assicurò – immancabilmente, il suo più congeniale status sociale. Guardai Carla. Malgrado il tempo fosse stato ingiusto con lei, mi sembrava di vederla attraverso la lente di una poesia lontana, sì, ma che riproponeva le sue risate, il suo profumo, il suo fascino di tanti anni prima. E che erano rimasti come graffiti della mia storia personale, nelle tentazioni di un giovane sottotenente. Mi riproposi di scegliere le parole adatte per invitarla fuori, per corteggiarla un po’ e, perché no, per riempire le sue ore vuote con qualche impegno letterario partecipandole una giuria, un concorso, un evento culturale. E magari qualche carezza. Di più, sinceramente, non avrei potuto, perché anche con me la vita aveva tradito troppe volte, e perché non avrei potuto donarle che briciole del tempo che mi restava oltre il mio orizzonte. Ma Carla mi prevenne. Erano cambiate molte cose, non era più quella di una volta – mi disse – ma era sempre sicura, più di Penelope, che una volta o l’altra sarebbe tornato l’Ulisse che il destino le riserbava. Senz’ombra di dubbio. Così non mi rimase che salutarla, stringendole le mani che baciai con un calore e uno struggimento che commossero ambedue. E perché sapevamo, entrambi, che non ci sarebbe più stata una prossima volta.
Poi uscii dalla penombra, con la voglia di bagnarmi nella luce che avevo lasciato entrando in quella casa. Ma anche fuori, oramai, senza che me ne fossi accorto, si era fatta sera.
Straordinario!
Grazie.
Francesco
…mi piacerebbe visitare il tuo sito…ma non sono certa tu ne abbia uno…questo racconto mi ha fatto venire i brividi…anonima
“l’ormai ex splendida bruna alla quale le tinture avevano bruciato i capelli e le rughe, impietosamente, avevano disegnato sul volto la mappa delle sconfitte esistenziali e delle speranze irrealizzate.”
Mi piace moltissimo il modo in cui scrivi. Delicato, dolce, malinconico, pieno di messaggi tra le parole e la carta. Dici più di quello che scrivi, scrivi più di quello che una lettura veloce rivela. Lasci piccoli semi tra le righe, piccoli sassolini colorati appena celati dalle pieghe del foglio. Basta scostare appena la piega tra le parole, per trovarli.
E quella “sera”, mi ha colpito come un maglio.
“Ma anche fuori, oramai, senza che me ne fossi accorto, si era fatta sera.”
L’ho letta e riletta questa riga.
Mi ha investito talmente tanta malinconia da rimanere folgorata.
Sei un mago delle parole.
Marghy
Caro Giulio,
letto più volte questo tuo racconto. Nonostante ciò mantiene intatta la sua freschezza (anche nel passar del tempo dei momenti in cui il protagonista incontra Carla).
Ti rinnovo i miei complimenti
Ars
Un bel racconto. Un ottimo esempio della pratica del bello scrivere da uno dei critici letterari più autorevoli nel panorama della letteratura contemporanea. Amico di Domenico Rea, Mario Luzi, Aldo Onorati, tanto per citarne alcuni, Giulio Panzani con questo racconto ci offre una piacevole lettura. Inconfondibile lo stile.
Nicla Morletti
Amatissimo Giulio,
quale documento di una nuda esperienza di vita!
Nel tuo scritto, la parola rivela la densa chiarezza espressiva delle forse misteriose che si risvegliano dentro le sensazioni piu’ fisiche e intime e che determinano l’ispirazione.
Nel silenzio perfetto di questa sera le tue parole sono boe nel cielo.
Con molto, molto affetto
Laura Tonti Parravicini
Un racconto sapientemente giocato sui chiaroscuri, sui contrasti, primo fra tutti quello di una gioventù animata da battaglieri propositi di vita ed una maturità che lentamente declina in vecchiaia languida ma pur sempre speranzosa.”Poi uscii dalla penombra, con la voglia di bagnarmi nella luce che avevo lasciato entrando in quella casa. Ma anche fuori, oramai, senza che me ne fossi accorto, si era fatta sera.” Il finale, tutto giocato su luci e ombre, sembra disegnare una storia capovolta dove la gioventù s’é bruciata ogni illusione nell’assalto garibaldino e la vecchiaia, con l’occhio ancora vigile all’orizzonte di felicità e bellezza, é mirabilmente preservata nella sua aura nobilitante di luce e nell’attesa d’amore e ricompensa.
Complimenti per questo racconto delicato che sa di altri tempi, di nobili sentimenti ed animi gentili.
Lucia Sallustio
Un racconto dai toni delicati, sospeso tra desiderio e sogno e tra sogno e realtà, in quell’intreccio inestricabile di vie attraverso il quale si snoda il tormento di un’anima.
Gli spunti introspettivi sono tanti e di gran pregio, offrono materiale per ripercorrere, ognuno, le proprie strade delle scelte non fatte. Spunti che sono così ben descritti da essere patrimonio di tutti, in cui tutti possono riconoscersi. Quello che , secondo me, caratterizza un buon racconto.
Bisogna sempre avere fiducia nel futuro, nonostante tutto. Quando sembra che niente possa più riscaldare il nostro cuore, ecco spuntare dalla monotonia della vita una nuova occasione che ci riporta al centro della scena. Bellissimo racconto, condotto sempre sul filo dell’emozione. I miei complimenti, Lenio.
Personaggio incredibile questa Claudia. Di lei mi è piaciuta la fiducia con cui affronta il futuro, nonostante il dolore, la solitudine, l’umiliazione continua a credere che il destino le riserverà qualcosa di bello.
Questo racconto mi è entrato nel cuore!
una storia struggente e simile a tante altre…. purtroppo! Chissà perchè dopo certi avvenimenti dolorosi, perdite di amore ci si ostina a continuare a guidare la macchina della propria vita usando solo lo specchietto retrovisore, con il rischio di non vedere cosa stiamo attraversando e verso cosa stiamo andando. Questa Carla mi pare congelata da quell’avvenimento e guarda solo dietro, ma nello stesso tempo guarda davanti e solo l’orizzonte lontano…. e perde di vista il presente. Mi è stato utile leggere questa storia proprio perchè io voglio vivere nel presente, cogliere le occasioni belle della vita, tenendo conto del passato che è sempre basilare e importante, e programmando obbiettivi per il futuro. Grazie per quello che hai scritto. ciao.
Egregio Dott. Panzani,
ho letto con emozione il Suo bel racconto che parla all’anima.
Tra occasioni mancate, umiliazioni, sentimenti disattesi, malinconia per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, c’è un orizzonte che, illuminato da una nobile luce consolatrice, si tramuta in illusione per donare una speranza.
Complimenti vivissimi
Daniela Quieti
Scusami tanto, come ho inviato il commento mi è apparso come per magia il seguito del racconto che ho trovato piacevole.
complimenti!
marinella(nonnamery)
Per il momento mi hai lasciato con il fiato sospeso, continua vorrei conoscere la fine di questo racconto che mi affascina soprattutto per la divisa.
saluti…
marinella (nonnamery)