Tutte le parole del vocabolario non sono sufficienti per descrivere e contenere il profondo senso di paura, terrore, soggezione e rancore che mi attanagliavano i giorni antecedenti l’intervento operatorio. Sì, provavo anche rancore, rancore che si è assorbito col tempo perché io dimentico facilmente, specialmente il dolore fisico. E poi l’odio, come afferma Milan Kundera, nasconde un inganno: “…ci lega al nostro avversario in uno stretto abbraccio”. E per questo è un tipo di pensiero che entra «in risonanza» nella tua anima, corrodendola nella sua essenza e svuotandola al contempo delle energie necessarie alla quotidianità dell’esistenza.
È con il lato del mio carattere che dimentica che in questi cinque anni di malattia progressiva sono riuscita ad andare avanti; solo io so quanto ho sofferto: le «contrazioni» del nervo frenico sono molto dolorose e mi prendevano in qualsiasi momento del giorno e della notte. Ma il mio medico curante non mi prendeva sul serio, non riusciva a capire o pensava, forse, che ero ipocondriaca.
Circa un anno dopo dalla comparsa di questo maledetto dolore, nel 1994, ho cominciato a deglutire male il cibo; anche in questo caso la mia sintomatologia è stata decisamente sottovalutata, e per lungo tempo, nonostante il disturbo comparso precedentemente non fosse mai cessato.
Già nel 1995, durante un esame chiamato bariografia (dove ti fanno una lastra mentre ingoi una sostanza bianca che sia chiama, appunto, bario), si vedeva che – anche se non c’era ancora dilatazione esofagea – il mio cardias non funzionava a dovere, ma tale fenomeno veniva attribuito nuovamente ad un temperamento eccessivamente emotivo.
All’incirca undici mesi prima di pervenire a conoscenza del fatto che avrei dovuto subire un intervento chirurgico, all’inizio del 1998, ho cominciato a svegliarmi la notte perché soffocavo nei liquidi che dall’esofago non riuscivano più a confluire nello stomaco – come avrebbero normalmente dovuto – liquidi che, a loro volta, mi provocavano perenni stati infiammatori ai bronchi e dolori lancinanti alle orecchie.
Visto che neanche allora il mio dottore prese sul serio il mio quadro clinico, il mio organismo reagì da solo a quella situazione di pericolo e cominciò ad espellere questi liquidi prima con una semplice tosse che mi ossessionava tutta la notte, poi con episodi di vomito: sì, io ho passato gli ultimi dieci mesi della tesi di Laurea che il giorno studiavo anche 16-18 ore al giorno e la notte mi svegliavo in continuazione soffocando o tossendo o vomitando.
Gli esseri umani sono degli animali molto strani: sanno adattarsi alle condizioni di sofferenza più assurde; mi ero talmente abituata a quella situazione che mi sembrava normale «dormire» con un secchio vicino al letto dove espellere, durante la notte, il materiale fisiologico che non confluiva nello stomaco, secchio che svuotavo abitualmente tutte le mattine. Era diventato consueto svegliarmi 10-15 volte per notte mentre soffocavo e facevo rumori tremendi nel tentativo di ricominciare a respirare. Era diventato ordinario imbottirmi di Aulin tutti i giorni fino alle orecchie per curare tutte quelle infiammazioni che, conseguentemente, attaccavano il mio organismo sempre più debilitato.
Il bello è che non mi lamentavo più di tanto – non sono decisamente un tipo «ficoso» (ma visto come sono andate le cose sarebbe stato più utile esserlo) – e forse per questo i miei genitori si fidavano abbastanza dell’opinione degli specialisti che dopo la tesi – con il termine di una fase di affaticamente – sarebbe tutto passato.
Appunto perché ero sotto lo stress della tesi questo peggioramento del mio stato fisico fu infatti nuovamente attribuito al mio carattere, al fatto che ero troppo nervosa ed al particolare periodo di tensione che stavo attraversando.
Ci volle la «prova» che stavo male anche in vacanza, dopo la discussione della tesi brillantemente superata, per poter smuovere finalmente le acque.
Ero andata in campeggio con A. nella magnifica Valtellina, vicino a Bormio: le intenzioni erano quelle di rilassarmi al massimo e di buttare una pietra sopra al brutto periodo che trascinavo dietro da tanto tempo. Speravo che delle lunghe e stancanti passeggiate all’aria pura mi avrebbero conciliato un buon sonno e che la visione di stupendi ed imponenti paesaggi, e la possibilità di stare finalmente un po’ sola con il mio ragazzo, avrebbero fatto il resto.
Le prime tre notti, invece, tenni svegli i miei vicini di tenda con tutti i miei problemi ed il conseguente chiasso; una sera sentii una ragazza affermare che facevo dei rumori paragonabili a quelli di un maiale e ci rideva insieme ai suoi amici (non vi nascondo che questa osservazione mi ferì in un modo profondo); un’altra vicina di campeggio, più grande in età e decisamente più carina e premurosa, mi consigliò – in maniera indiretta e con molti giri parole – di dormire un po’ rialzata con dei cuscini (quando lei aveva avuto una brutta tosse aveva funzionato): le cose effettivamente migliorarono, anche se di poco, ma A. era ogni giorno più arrabbiato e musone: era molto preoccupato; lui non si era mai fidato delle diagnosi che i medici mi avevano «appioppato» con tanta leggerezza fino ad allora: lui forse era stata l’unica persona che, fino in fondo, credeva che stavo veramente male e che il mio non era un problema di origine nervosa ma decisamente di origine organica.
Il primo martedì di settembre del 1998, dopo pochi giorni che ero tornata dalle vacanze – terminate anticipatamente perché non stavo bene – sono andata a fare una seconda bariografia.
Mi ricordo la mezz’ora passata nella piccola sala d’attesa insieme a mia madre nel vecchio ospedale di Cecina: le poltrone azzurre di plastica, il muro dipinto per metà bianco e per metà beige, la porta finestra che dava su un cortile grigio. Mi ricordo mentre percorrevo da sola il corridoio squallido ed asettico, illuminato dalle gelide lampade al neon, mentre c’erano due «signore» che sostenevano che ero passata davanti a loro. Mi ricordo il dottore, un uomo massiccio e di media statura sulla quarantina, vestito di una tunica verde, in una stanza semibuia, e mi ricordo la paura.
Quei venti minuti in cui sono stata dentro da sola nella sala radiazioni non finivano mai perché il dottore, man mano che passava il tempo, si faceva sempre più scuro in volto, a tal punto che sono arrivata a pensare il peggio. Queste ansie erano accentuate dal fatto che anche l’infermiere presente all’esame si faceva, col tempo, sempre più premuroso e delicato. Perciò, mentre procedevano le analisi, non riuscivo più a reggermi in piedi dal terrore: ho dovuto più volte mettermi a sedere per non cadere per terra come una pera matura.
In quei momenti di forte panico ho pregato molto per la mia salute, cosa insolita perché di solito prego sempre per quella degli altri.
Il verdetto è stato: sospetta acardiacalasia: la valvola che collega l’esofago allo stomaco si «logora» prima del tempo – non permettendo al bolo masticato, e addirittura agli stessi liquidi, di confluire normalmente nello stomaco – ed il suo malfunzionamento provoca la dilatazione dell’esofago stesso, in quanto le sostanze che non passano vi ristagnano per un tempo decisamente maggiore al normale.
Si escludevano neoplasie all’esofago od allo stomaco per ragioni di età. Ma si sa che le statistiche vengono puntualmente smentite dalle eccezioni: per cui fino alla effettiva biopsia, nonostante i medici cercassero di tranquillizzarmi, dicendomi che se avessi avuto il cancro in questi anni sarei già morta (magra consolazione!), ogni tanto mi assaliva il terrore di avere un tumore e, se fosse stato così, la quasi certezza della sua incurabilità, visto che, a quel punto, sarebbe stato certamente ad uno stadio troppo avanzato. Non riuscivo a fidarmi completamente di loro: avevano già sbagliato diagnosi per cinque anni, una di più – giunti a quel punto – non avrebbe fatto una «grande differenza»!
Quando uscii dall’ospedale ero come stordita; faceva un caldo afoso: era una giornata bellissima. La mia mamma mi prese e mi portò verso il mercatino settimanale di Cecina (era infatti martedì) nel vano tentativo di distrarmi. Io cominciai a piangere, ma non era un pianto di paura: era un pianto di rabbia, la rabbia di chi è stato scambiato per anni per un Pierino che gridava “Al lupo! Al lupo!” e nessuno gli credeva: il problema era che il lupo c’era davvero e c’era sempre stato, fin dall’inizio! Io non avevo mai imbrogliato nessuno…
Telefonai a mio padre da una cabina telefonica raccontandogli quel poco che le mie emozioni mi avevano permesso di capire e di ricordare, e facendomi integrare nelle informazioni da mia madre che si era mantenuta un po’ più lucida di me: lui rimase sconvolto almeno quanto me. Poi telefonai ad A. che si arrabbiò moltissimo (per non usare altri termini più sconvenienti).
Nonostante in quel periodo della mia vita abbia finalmente potuto dare un nome ed un inquadramento scientifico alla mia malattia – di origine genetica, e non psicologica come tutti, fino a quel momento, avevano cercato di farmi credere – malattia che mi ha ossessionato per anni – di giorno e di notte e tutte le volte che mandavo giù un boccone di cibo od un sorso d’acqua o che andavo a dormire – il rancore ha continuato ancora per lungo tempo a scorrermi nelle vene come un veleno che mi intorpidiva l’esistenza e scavava tunnel nelle ossa della mia anima. E questo rancore c’è stato perché, fondamentalmente, non sono stata creduta! Io dicevo che stavo male e chi (i diversi specialisti consultati in questi anni) avrebbero potuto e dovuto aiutarmi non lo ha fatto.
Loro si sono giustificati dicendo che la mia malattia è molto rara, ma la rabbia, per un po’ di tempo, non mi è passata. Anzi, per un certo periodo è stata accentuata dalle analisi dolorose e non a cui mi sono dovuta sottoporre, come la gastroscopia. Il «dolore» della gastroscopia non è tanto il vomito che procura, o la sensazione di soffocamento prima e fastidio incessante poi, ma un terribile senso di violazione fisica, che mi ha perseguitato nei giorni successivi.
Durante la gastroscopia mi hanno fatto «zitti zitti» anche la biopsia; ed è solo allora, risultati alla mano, che ho avuto la matematica certezza di non avere il cancro.
Prima dell’operazione cercavo di passare le giornate rifiutandomi di pensare: sono arrivata a fare ginnastica fino allo sfinimento pur di convogliare fuori dal mio corpo tutte quelle negatività di cui era impregnato, ma non era mai sufficiente.
Il cuore ed il cervello si ribellavano e mi costringevano a confrontarmi quotidianamente con le mie paure e le mie sensazioni angoscianti.
È da quando era morto Federico, come ho già affermato precedentemente, che convivevo con una sensazione di morte strisciante. Ci sono invece tanti giovani della mia età – e persone decisamente più adulte – che non ci pensano mai, che fuggono il più lontano possibile da questa verità, e che forse è proprio per questo che vivono la propria vita senza spiritualità e che si aggrappano con inerzia allo spietato materialismo della nostra società.
Io, invece, dalla morte di Federico, ho sempre dato la mano al pensiero della morte, pregando che non prendesse le persone a me più care, pregando piuttosto di far morire me.
Ma in quel periodo in cui «mi ha preso per mano», il mio rapporto con la morte è cambiato: essa mi ha completamente sovrastato nella sua totalità, impedendomi di vivere la piccola quotidianità, mi ha perseguitato ad ogni ora del giorno e della notte, si è incanalata in tutti i miei pensieri inquinando i miei interessi e ponendo un’ombra di pessimismo sul mio futuro.
In quei giorni cercai di riattaccare insieme i frammenti della mia vita che, come una coppa di cristallo, sentivo essersi disintegrata in mille pezzi. Non avevo perso l’interesse per la vita e per le persone che amavo, ma mi sentivo un po’ come un’immagine senza soggetto, un’ombra senza l’oggetto che la proietta.
Fu l’amore per il mio compagno a tenermi insieme…
E’ proprio il senso del mio scritto:grazie di averlo colto nella sua pienezza…
La morte come compagna di viaggio per raggiungere il vero senso della vita…
Io sono profondamente convinto che si può vivere meglio, in modo più pieno e autentico, solo avendo una chiara consapevolezza della morte. Questo è l’unico riscatto che possiamo ottenere dalla morte.
“È da quando era morto Federico, come ho già affermato precedentemente, che convivevo con una sensazione di morte strisciante. Ci sono invece tanti giovani della mia età – e persone decisamente più adulte – che non ci pensano mai, che fuggono il più lontano possibile da questa verità, e che forse è proprio per questo che vivono la propria vita senza spiritualità e che si aggrappano con inerzia allo spietato materialismo della nostra società.”
E’ quello che dicevo prima, in un precedente commento ad un altro capitolo.
il mio rapporto con la morte è cambiato: essa mi ha completamente sovrastato nella sua totalità, impedendomi di vivere la piccola quotidianità, mi ha perseguitato ad ogni ora del giorno e della notte, si è incanalata in tutti i miei pensieri inquinando i miei interessi e ponendo un’ombra di pessimismo sul mio futuro.
La vita si deve vivere…con tutta la forza che abbiamo. Un abbraccio, manu