Fabrizio Mavi non credeva più in nulla. Aveva abbandonato da tempo la religione, dopo aver perduto il lavoro a quarantacinque anni ed aver perso i suoi pochi amici. Qualcuno sposato era geloso della moglie, altri preferivano evitarlo per coltivare il proprio orticello. Il carattere all’apparenza burbero ed introverso aveva contribuito a fare di lui un uomo isolato ed ignorato. Il fato gli si era accanito contro, e a nulla era servito sperare che la sorte avversa potesse terminare.
Così si era richiuso in se stesso, precipitando in uno stato di apatia da cui non riuscì a risollevarsi.
«La depressione è una brutta bestia. Una malattia terribile e difficile da sconfiggere… devi lasciarti aiutare…»
Gli ripeteva la vecchia madre appena compresa la situazione del figlio. Ma le condizioni di salute e l’età avanzata non le permisero di prendersi cura di lui come avrebbe voluto. Il monolocale che occupava, nel quartiere popolare di Verona, divenne il suo sudario dall’abbraccio stretto e soffocante. Un calvario chiuso in quattro pareti fredde e dall’intonaco fatiscente. Usciva solo per comprarsi lo stretto necessario a sopravvivere. Talvolta mangiando una volta al giorno, talvolta scordandosi di farlo, talvolta dovendo rinunciare per il basso sussidio che percepiva. Negli ultimi anni aveva iniziato a sbiancarsi nei capelli e a perderli. Tanto che, il viso e gli occhi infossati uniti ad una carnagione chiara, gli conferivano un aspetto quasi spettrale che si combinava adeguatamente alla corporatura smilza e dinoccolata. Somigliava alla controparte maschile di Adelina; la ragazza che ogni giorno lo salutava sulla soglia di casa prima di uscire. Minuta, pallida, sembrava saperlo scrutare dentro dai suoi inseparabili occhiali scuri. Vestiva sempre con capi sobri e neri, giacche di una misura più ampia rispetto alla sua taglia, sopra magliette di cotone bianco.
«Buongiorno signor Mavi… le occorre qualcosa? Sto uscendo…».
Si rivolgeva a lui con un tono di rispetto e cordialità inusuali. L’unica persona dell’intera palazzina a farlo per qualche strano motivo. Perlomeno tale appariva a Fabrizio. Ormai disilluso dalla vita e dal prossimo. Non aveva più nulla da dare, eppure quella ragazza dai capelli corvini, raccolti sempre in una coccarda, impegnava ogni giorno alcuni minuti del suo tempo soffermandosi accanto alla sua porta d’entrata. Lo riteneva l’ultimo flebile spiraglio di una luce che si affievoliva progressivamente. Nonostante il dialogo con la generosa vicina si limitasse a quella singola frase ricorrente, cui rispondeva con un cenno negativo del capo ed un triste sorriso, l’importanza della cortesia assumeva un fondo sostanzioso nel lento incedere di giorni opachi ed aridi sempre fedeli a se stessi. Nei pochi istanti dell’incontro, Fabrizio si sollevava dal letto e compiva i pochi passi necessari a raggiungere l’ingresso, richiamato dal trillo del campanello. Un rituale quasi religioso che percorreva la medesima linea retta, eseguendo una camminata lenta e svogliata che lo scuoteva dal torpore fisico e mentale. Adelina si era insinuata nella sua esistenza. Questo un dato di fatto inconfutabile. Ci era riuscita arrivando in punta di piedi, senza utilizzare la forza della carità o dell’apprensione. Il ragazzo iniziò a contare i minuti che lo separavano dalla sua visita, quindi le ore. E, quando questa avveniva, un sapore diverso sostava per qualche tempo nella sua giornata. Un aroma di tranquillità, un gusto di umanità. Poi, come tutte le cose belle della sua vita, anche la visita di Adelina si interruppe. Il primo giorno, Fabrizio rimase seduto sul letto. Attendendo invano per delle ore. Trascorrendo una notte quasi insonne. Avvertendo un’inspiegabile nodo allo stomaco. Maturando un’ansia insopprimibile. Il mattino seguente lo trovò curvo sul materasso, con le mani a stringere la nuca e lo sguardo a cercare un’inesistente spiraglio luminoso dalla porta. Dondolava il tronco con i gomiti appoggiati alle ginocchia, alternando la vista dai piedi all’entrata del monolocale. Inquieto. Non poteva accettare che la sua vicina si fosse dimenticata di lui. Non anche lei. Era assurdo.
“Se soltanto le avessi detto qualche parola… forse….”
Meditava preso dall’angoscia di aver commesso qualche inspiegabile mancanza. Si assumeva mentalmente ogni colpa, quasi cercando di espiare, ripromettendosi che avrebbe assunto un comportamento meno schivo, sperando bastasse ciò a rivedere Adelina. Ma anche così, la ragazza non si vide.
Fabrizio prese a camminare nervosamente lungo l’appartamento, attraverso il disordine degli abiti sparsi a terra, a fianco delle pentole dimenticate nel lavandino, sfiorato dalle fasce orizzontali del sole che si affacciava timidamente dalle persiane sulle finestre.
“Le è accaduto qualcosa. Deve essere così… non ci sono altre spiegazioni. Lei non mi abbandonerebbe mai… mai!”
Provò a convincersi. Incapace di tollerare diversamente. Decise di scoprire il motivo della latitanza e si infilò le scarpe, sopra la maglietta nera una giacca sgualcita, e solcò l’uscio di casa. Disorientato, si rivolse alla signora del primo piano; una anziana pensionata che passava il tempo osservando i vicini della palazzina e la vita che scorreva fuori sulla strada.
«Adelina..? Adelina Ghiotti..? La ragazza che sta su, all’ultimo piano… Si, si.. la vedo passare ogni giorno. Ha avuto un’incidente… Non lo sapeva?»
Lo informò dimostrandosi al corrente.
«Un… incidente?!? No… non so nulla. Cosa le è accaduto? Come sta adesso?»
La incalzò agitato, sentendo la gola inaridirsi.
«Non si sa. Io da qui non posso muovermi. Ma mi ha informata il figlio della Giovanna; la vedova del secondo piano. Il ragazzino stava prendendo l’autobus per andare a scuola, come tutte le mattine, ha sentito un botto a pochi metri di distanza ed ha visto l’Adelina accasciata a terra. Una macchina l’ha investita. Per fortuna non correva molto.. La nostra vicina sembrava essere ancora vigile quando è arrivata l’ambulanza. Adesso è ricoverata in ospedale.. Però altro non saprei dirle… Non posso muovermi…»
Ripetè l’anziana lamentandosi della carrozzella che la confinava. Fabrizio la ringraziò con un filo di voce e si dileguò verso la fermata dell’autobus. Attese con impazienza l’arrivo del mezzo pubblico e contò le fermate necessarie per giungere in ospedale. Vi giunse insieme ad un’ambulanza del pronto soccorso, da cui alcuni infermieri prelevarono una portantina con un ferito ricoperto di sangue. La visione lo fece rabbrividire, ma non si fermò. Proseguì soffermandosi alla portineria per chiedere informazioni, salì diversi piani di scale con il fiatone per non attendere l’ascensore occupato. Quindi, con il cuore in gola, si presentò davanti alla stanza con Adelina dentro. La distinse subito tra le altre degenti; l’inconfondibile carnagione pallida, i capelli scuri sciolti, ora sulle spalle, che incorniciavano un viso emaciato, le spalle magre che fuoriuscivano dalle lenzuola di cotone. Una medicazione bianca e spessa sulla fronte rimarcava l’accaduto.
Fianco al letto un bastone bianco, con un’estremità rossa, dalla verniciatura fosforescente. Un oggetto che non aveva mai scorto prima, forse appoggiato di lato ad ogni sua visita. Un’inaspettata scoperta per l’allibito Fabrizio; la giovane veronese, che da svariate settimane gli offriva un apporto morale, combatteva quotidianamente con problematiche persino più grandi delle sue. Si avvicinò con cautela al letto e le vide riaprire gli occhi vuoti. Dopo un’iniziale smarrimento, Adelina mosse lievemente il capo, arricciando il naso, nutrendosi della nuova presenza che la fece sorridere.
«Buongiorno signor Mavi… Come sta oggi?»
Probabilmente il particolare odore di lavanda e di pelle erano caratteristiche inconfondibili per i sensi acuiti di Adelina.
«Io bene, grazie Adelina… Hai bisogno di qualcosa…?»
Le rispose con un sorriso ancora più radioso e grato del precedente. Per nulla sorpresa. Dando l’impressione di conoscerlo più di quanto lui conoscesse se stesso, in fondo.
«Grazie… Per ora non mi occorre nulla. Sono tutti molto gentili con me. A volte bastano poche cose per fare avvertire il proprio affetto e calore. Qui sono abituati a dimostrarlo….»
Fabrizio soppesò brevemente quelle parole e non disse altro. Si limitò a farle compagnia, ad offrirle quello che aveva ricevuto. E lo stesso fece per i giorni successivi. Anche quando Adelina venne dimessa.
***
(*) Menzione d’onore al Concorso letterario di poesia e prosa:
VALEGGIO FUTURA 2007 sul tema:
“SOLIDARIETA’, IO PER GLI ALTRI”.
Colpita. E affondata! Addirittura forse un po’ sconvolta…
Una menzione direi più che meritata la tua… e meritate anche le cinque stelle che ti regalo!
A presto!
Grazie ancora a tutti. I commenti sono spessissimo la vera linfa vitale per chi scrive!
Un effluvio di emozioni e chi legge si specchia…un sorriso e complimenti!
Un racconto che scorre, scritto molto bene. E la storia la vivi anche tu, mentre la leggi.
Marilena
La delicatezza di questo racconto è tratteggiata con mano altrettanto delicata.
Il senso della vita è tutto qui:
nel riconoscere un passo e nel sorridergli.
Bravo 🙂
Davvero un bel racconto che ha meritato la menzione d’onore nel Concorso citato dall’autore.
Quando due anime che soffrono s’incontrano, il dolore diventa improvvisamente sopportabile e la vita acquista senso. Questo è il divino potere dell’amore che ci riscatta sempre e prende sempre la sua rivalsa.
Un ringraziamento per il tuo prezioso commento anche a te, Nicoletta. E’ con estremo piacere che leggo il tuo giudizio e quello di Nicla, sopra. Parole che, espresse da voi, hanno un sapore profondo…
Grazie, Nicla.
Un commento molto sentito…
Rileggo con piacere questo racconto bellissimo, che sa esprimere con stile e particolari, una sofferenza interiore che viene appagata dall’armonia dell’essere, che scaturisce da un profondo sentimento di altruismo che al momento del bisogno viene ricambiato facendo comprendere una grande consapevolezza.
Un abbraccio, a presto
Nicoletta
Racconto ben scritto, vero, tanto vero che pare quasi di viverla così da vicino questa storia che scuote il cuore…
Nicla Morletti