Occhi obliqui e furtivi a spiare ai lati della strada polverosa, solo tracce d’asfalto logorato e odore di catrame antico tra capannoni chiusi da reticolati rugginosi, non una persona, non un’auto, non un camion nel tardo pomeriggio festivo. Una mano sul petto a comprimere il battito del cuore nella fuga dai campi stepposi alle spalle, le gambe ancora tremanti, un braccio proteso come a cercare un appoggio, l’affanno. Ancora poco, forse, per raggiungere la statale, quel bar dove prima, ore fa? giorni fa? quando? si era fermata a bere un bicchiere di spuma e si era incontrata con Yuri. Bello Yuri, occhi neri e saettanti, spalle vigorose e quel sorriso rapido e splendente quando faceva canestro nel cortile dell’oratorio e sembrava dire, con quel sorriso, che lui avrebbe sempre segnato, sempre raggiunto le proprie mete. Tutte morte per lui le bimbe, mai avrebbe pensato che avrebbe scelto lei così timida. Ciao passerotto, così la salutava – la salutava, lui più grande di lei di due anni! – lasciando il campo e andandosene con quel passo ondeggiante e la testa eretta, sicuro come può esserlo uno così fico, così bello e vincente. E lei arrossiva e neppure riusciva a rispondere e la sua amica come sei scema, diceva, io uno così me lo farei subito e lei alzava le spalle come a dire chi se ne frega ma dentro di sé pensava che lei avrebbe voluto solo parlargli e fare una passeggiata mano nella mano e prendere un gelato, che a lei quel discorso di farselo non le tornava, perché prima bisogna stare insieme e in ogni modo la metteva a disagio. Così andava sempre a guardare quando lui giocava, ad aspettare quel saluto e continuava ad arrossire e a non dire nulla. Ma il cuore le batteva forte, senza dolore però, non come ora, un dolore che la percorre tutta dalle spalle al ventre, nelle cosce, nei polpacci, nei piedi che a malapena riesce a muovere, pesanti, ma deve raggiungere quel piccolo bar, un telefono, ma a chi telefonare? Non a sua madre che neanche guida e ha Matteo da badare, non a suo padre che chissà dov’è. Un giorno Yuri si era fermato, sorridente con quei denti bianchi, tutti uguali, bellissimi e le aveva parlato, non ricordava cosa le avesse detto, lei paralizzata aveva solo sentito la sua voce. Poi altre volte ancora e infine c’è il compleanno di Giada, vieni anche tu, domenica c’incontriamo con altri al bar sulla statale e si va insieme. Giada, una grande anche lei, come Yuri, simpatica, guarda i bambini più piccoli, come il suo fratellino. Yuri era arrivato con due amici, dai salta su, aveva avviato il motorino, lei senza casco con il vento nei capelli abbracciata a lui, un sogno, poi una stradicciola, cespugli, un po’ di boscaglia, si erano fermati, stupore, poi improvvisa la paura e loro intorno come lupi, aveva cercato di fuggire, Yuri l’aveva bloccata, dai non fare la scema che ti piace, un altro le aveva messo la mano fra le gambe, un dito che la frugava aspro, lei che si dibatteva. Urli, chi aveva urlato? Il rumore di un’auto, voci di gente che rideva, improvvisamente libera, era fuggita. Dove sono ora loro? Perché non l’hanno seguita? Meno male, però potrebbero arrivare. Il rombo di un motore, si getta in terra, si nasconde dietro un bidone abbandonato sulla strada, un furgone, non sono loro, prima avevano fatto una strada diversa. Deve raggiungere il bar, manca poco, forse, ma non vorrebbe più alzarsi, il cuore batte impazzito, vorrebbe rimanere lì, sdraiata nella polvere, fra le erbacce che le graffiano le gambe e non pensare più a nulla. Si lecca le labbra e s’accorge di piangere, no si deve alzare, deve tornare a casa, poi…vergogna, paura, silenzio. Raccontare a sua madre, povera donna? A suo padre che sa solo urlare, che non vorrebbe neanche che andasse all’oratorio? A Don Andrea, forse, ma la colpa è stata sua, è lei che ha sbagliato e se loro si sono comportati così significa che lei è una troietta, che è questa l’impressione che dà, forse per quei jeans a vita bassa per cui mamma brontola sempre e Don Andrea scuote la testa, ma oggi ha una gonna, neanche corta, indossata per la festa di compleanno. Meglio non dire niente, meglio tacere. Il peggio non è successo pensa, eppure si sente come se lo fosse. Ecco il bar, il paese non è lontano. Che aspetto avrà? Si ravvia i capelli, qualcosa di appiccicoso sotto la mano, la guarda, sangue, forse ha battuto la testa, forse si è graffiata. Signorina! Ma lei sta male! Un carabiniere. Non ha visto l’automobile davanti al bar. Sollievo, paura. vergogna, non dice nulla mentre chiamano l’ambulanza, non risponde alle domande, deve pensare, inventarsi una storia.
INVENTARSI UNA STORIA
Occhi obliqui e furtivi a spiare ai lati della strada polverosa, solo tracce d’asfalto logorato e odore di catrame antico tra capannoni chiusi da reticolati rugginosi, non una persona, non un’auto, non un camion nel tardo pomeriggio festivo. Una mano sul petto a comprimere il battito del cuore nella fuga dai campi stepposi alle spalle, le gambe ancora tremanti, un braccio proteso come a cercare un appoggio, l’affanno. Ancora poco, forse, per raggiungere la statale, quel bar dove prima, ore fa? giorni fa? quando? si era fermata a bere un bicchiere di spuma e si era incontrata con Yuri. Bello Yuri, occhi neri e saettanti, spalle vigorose e quel sorriso rapido e splendente quando faceva canestro nel cortile dell’oratorio e sembrava dire, con quel sorriso, che lui avrebbe sempre segnato, sempre raggiunto le proprie mete. Tutte morte per lui le bimbe, mai avrebbe pensato che avrebbe scelto lei così timida. Ciao passerotto, così la salutava – la salutava, lui più grande di lei di due anni! – lasciando il campo e andandosene con quel passo ondeggiante e la testa eretta, sicuro come può esserlo uno così fico, così bello e vincente. E lei arrossiva e neppure riusciva a rispondere e la sua amica come sei scema, diceva, io uno così me lo farei subito e lei alzava le spalle come a dire chi se ne frega ma dentro di sé pensava che lei avrebbe voluto solo parlargli e fare una passeggiata mano nella mano e prendere un gelato, che a lei quel discorso di farselo non le tornava, perché prima bisogna stare insieme e in ogni modo la metteva a disagio. Così andava sempre a guardare quando lui giocava, ad aspettare quel saluto e continuava ad arrossire e a non dire nulla. Ma il cuore le batteva forte, senza dolore però, non come ora, un dolore che la percorre tutta dalle spalle al ventre, nelle cosce, nei polpacci, nei piedi che a malapena riesce a muovere, pesanti, ma deve raggiungere quel piccolo bar, un telefono, ma a chi telefonare? Non a sua madre che neanche guida e ha Matteo da badare, non a suo padre che chissà dov’è. Un giorno Yuri si era fermato, sorridente con quei denti bianchi, tutti uguali, bellissimi e le aveva parlato, non ricordava cosa le avesse detto, lei paralizzata aveva solo sentito la sua voce. Poi altre volte ancora e infine c’è il compleanno di Giada, vieni anche tu, domenica c’incontriamo con altri al bar sulla statale e si va insieme. Giada, una grande anche lei, come Yuri, simpatica, guarda i bambini più piccoli, come il suo fratellino. Yuri era arrivato con due amici, dai salta su, aveva avviato il motorino, lei senza casco con il vento nei capelli abbracciata a lui, un sogno, poi una stradicciola, cespugli, un po’ di boscaglia, si erano fermati, stupore, poi improvvisa la paura e loro intorno come lupi, aveva cercato di fuggire, Yuri l’aveva bloccata, dai non fare la scema che ti piace, un altro le aveva messo la mano fra le gambe, un dito che la frugava aspro, lei che si dibatteva. Urli, chi aveva urlato? Il rumore di un’auto, voci di gente che rideva, improvvisamente libera, era fuggita. Dove sono ora loro? Perché non l’hanno seguita? Meno male, però potrebbero arrivare. Il rombo di un motore, si getta in terra, si nasconde dietro un bidone abbandonato sulla strada, un furgone, non sono loro, prima avevano fatto una strada diversa. Deve raggiungere il bar, manca poco, forse, ma non vorrebbe più alzarsi, il cuore batte impazzito, vorrebbe rimanere lì, sdraiata nella polvere, fra le erbacce che le graffiano le gambe e non pensare più a nulla. Si lecca le labbra e s’accorge di piangere, no si deve alzare, deve tornare a casa, poi…vergogna, paura, silenzio. Raccontare a sua madre, povera donna? A suo padre che sa solo urlare, che non vorrebbe neanche che andasse all’oratorio? A Don Andrea, forse, ma la colpa è stata sua, è lei che ha sbagliato e se loro si sono comportati così significa che lei è una troietta, che è questa l’impressione che dà, forse per quei jeans a vita bassa per cui mamma brontola sempre e Don Andrea scuote la testa, ma oggi ha una gonna, neanche corta, indossata per la festa di compleanno. Meglio non dire niente, meglio tacere. Il peggio non è successo pensa, eppure si sente come se lo fosse. Ecco il bar, il paese non è lontano. Che aspetto avrà? Si ravvia i capelli, qualcosa di appiccicoso sotto la mano, la guarda, sangue, forse ha battuto la testa, forse si è graffiata. Signorina! Ma lei sta male! Un carabiniere. Non ha visto l’automobile davanti al bar. Sollievo, paura. vergogna, non dice nulla mentre chiamano l’ambulanza, non risponde alle domande, deve pensare, inventarsi una storia.
grazie mariamartina, apprezzo molto.
un saluto
Cabram, forse non c’entra nulla ma te lo devo dire, mi piaci, mi sei simpatica. Mi pice la tua tenacia.
mah…
la denuncia è arrivata perchè ho scelto io di espormi, ma una ragazza come quella da te descritta non ne avrebbe avuto forza.
quello che tu hai raccontato è un bellissimo messaggio non dico il contrario, ma NON spinge alla denuncia, questo non vuol dire che non èforte, reale, interessante, anzi…
di base abbiamo la stesa idea mariaamrtina, io avevo solo chiesto una spinta in più a non “inventarsele le storie” ma a REAGIRE e AGIRE.
tutto qui, ma quando lascio un commento negativo non vinee quasi mai recepito nel modo giusto noto…
vabbècmq, almeno è servito a parlare di qualcosa di molto importante e per questo ti ringrazio.
buona giornata
Vedi che la denuncia è arrivata? Bella, forte, esplicita. E’ nata di fronte alla narrazione di una realtà triste e cruda e senza ovvi commenti ed aggiustamenti spesso irrealizzabili. Questo sempre dovrebbe essere.
perchè non basta un giudice a dare ad una giovane donna la sicurezza di essere protetta e creduta e ascoltata e aiutata.
il problema è che purtroppo siamo ancora culturalmente e mentalmente arretrati, chiusi, ancora ci preoccupiamo dello scandalo, del pudore, della gente, del pettegolezzo.
chi subisce violenza spesso ha paura di rompere equilibri familiari, di trovarsi un muro, di non essere creduta, soprattutto, o accusata di aver provocato, o ancora di essere poi costretta a una vita di rifiuti, di non uscite, di non libertà , di controllo eccessivo.
i motivi sono tanti. e predominano sempre sulla giusta scelta di denunciare e rivendicare giustizia.
ecco perchè io dicevo a te di non finire così la storia o meglio, di raccontare pure questa verità in questo modo, ma almeno, aggiungendo poi qualche riga che spingesse alla denuncia e spiegasse quali sono i diritti di ogni donna violentata (psicologicamente, completamente o parzialmente non conta)
tutto qui. ora, forse, è più chiaro?
Innanzitutto desidero ringraziare Robert per essersi assunto l’onere di ricomporre il “conflitto”(?!) tra me e Cabram. Ho capito Cabram e le sue”critiche” non me le sono sentite addosso, anzi, un po’ è successo quello che desideravo, discutere un argomento senz’altro pesante ma terribilmente importante. Grazie Robert, sei una persona affidabile, garbata ed equilibrata. E’ un piacere potere conoscerti.
Vorrei anche fare una domanda a Cabram. Oggi la legislazione (non tutti i giudici) favorisce più di una volta la denuncia di abusi, molestie e stupri, però molte donne stentano ancora a parlarne, preferiscono “inventarsi una storia”; come mai? Se ne hai voglia puoi anche scrivermi una e-mail o rispondere in altro modo. Se ne hai voglia però. Un abbraccio.
allora, prima di tutto non è per nulla scritto male e lo stile non lo giudico, perchè è oggettivamente piacevole, le dicevo solo che secondo me poteva scriverlo meglio, nel senso che la punteggiatura messa in modo diverso e qualche a capo in più, potrebbero, secondo me, renderlo più incisivo. è solo un consiglio e non un’accusa.
punto secondo, io non ho detto che lei non conosce dolore, non mi permetto, al contrario di altra gente, di pretendere di sapere e conoscere il vissuto di chi ho di fronte.
la mia frase non era riferita a mariamartina ma era un messaggio generale che voleva dire:
al di là dei messaggi giusti o sbagliati o di quello che si vuole o si può dire, resta il fatto che c’è sempre differenza tra il vivere e raccontare e il sentire e raccontare.
e ho specificato che assolutamente non c’erano riferimenti PERSONALI.
il tuo commento ilyv non era per me, credo.
Un racconto, come una poesia o uno altro nostro scritto rappresenta sempre un punto di vista. Una visuale particolare da cui guardiamo il mondo, gli eventi e le persone.
Quindi succede che chi ha “vissuto” più direttamente, per varie ragioni, questo dramma dell’amore violato non vede le stesse cose o le vede in modo diverso di chi ha potuto osservare lo stesso fatto da uno Sportello Donna.
Mi sembra del tutto nomale questo. Poi è vero: le cose si possono raccontare in modo più o meno efficace.
Però, per dare un giudizio, anche solo personale, non si deve mai dimenticare il discorso della visuale, che ho fatto prima.
Per questo posso dire che il racconto di Mariamartina lo trovo scritto molto bene ed assolutamente efficace dal suo punto di vista.
Per lo stesso motivo posso capire che dal punto di vista di Cabram, evidentemente più coinvolta in un dramma del genere, vi possono essere delle perplessità.
Tutto qui. Ongi punto di vista ha il suo valore. Perché nessuno, dico nessuno, neanche i grandi autori, possono avere tutti i punti di vista del mondo.
Però nelle osservazioni degli altri, questo è il bello della dialettica e dello scrivere, si possono cogliere insieme a quelle cose che già conosciamo altre che non avevamo visto o mai visto in una certa luce, appunto secondo un altro punto di vista.
Tuttavia mi rendo conto che l’argomento su cui discutiamo è terribilmente forte ed ha talmente tante implicazioni non solo psicologiche che ogni parola detta o non detta puo toccare le corde sensibili dell’anima di ognuno di noi, con effetti imprevedibili.
Scusatemi se non ho potuto intervenire prima. Solo oggi, per vicende mie personali, sto leggendo i post degli ultimi giorni.
Come sempre, vi ringrazio tutti di cuore per la partecipazione.
Non capisco, Cabram, una cosa…
Comprendo che ti possa non piacere lo stile della scrittura, od il dolore NON sufficientemente “urlato”, ma come fai ad affermare con tutta questa sicurezza che “ci sono cose che andrebbero raccontate da chi sa di cosa sta parlando, perchè chi ne sta fuori può provare ad immaginare, ma non può capire nè rendere?”
Che ne sai di Mariamartina, della sua VITA e del suo LAVORO?
Come ho già scritto in un altro blog: Nessuno si può permettere di dire all’altro: “Tu non sai cosa sia il dolore…” Il dolore è una cosa estremamente soggettiva; tutti gli stadi dell’esistenza di una persona ne sono pervasi. E l’impatto col dolore è, in ogni stadio, devastante….”
Io credo che abbia reso ugualmente, nonostante lo stile completamente diverso dal tuo…
ho letto la tua “denuncia” personale…tra le righe
parole che sn anche ribellione e urla….
Non preoccuparti Cabram.
io dico solo che visto che si ha la possibilità di denunciare sarebbe meglio farlo dando unmessaggio che porti alla volgia di denuncia.
non so, forse siccome questa cosa mi tocca personalmente non riesxco ad esprimermi come vorrei…
però ti assicuro, ci sono cose che andrebbero raccontate da chi sa di cosa sta parlando, perchè chi ne sta fuori può provare ad immaginare, ma non può capire nè rendere.
molto bello il tuo interessarti e sensibilizzarti di fronte a queste cose, quindi, non prenderla sul personale…
notte.
Cara Cabram, senz’altro potevo scrivere meglio, so che il mio stile può essere per alcuni troppo pacato, poco “fantasioso”. Comunque non è che io abbia voluto far finire così la storia, ho descritto una realtà dolorosa, come del resto descrive la letteratura scientifica, come mi racconta la mia esperienza presso uno Sportello Donna. In casi del genere la prima reazione, specialmente in una ragazza molto giovane, è la vergogna e il senso di colpa e,conseguentemente, l’impegno a “inventarsi una storia”. Ci sono le eccezioni naturalmente, molto dipende dalla cultura, dall’ambiente familiare e da altre variabili. Speriamo che una ragazzina come lei trovi poi o un medico o una dottoressa o una psicologa o un’assistente sociale o altri ancora, che la convinca a guardare in faccia la realtà e a parlarne.Tra l’altro avrei voglia di scrivere di altre donne e molte non si sono comportate come noi vorremmo. Ma descrivere la realtà non dovrebbe essere un incitamento ad ancorarsi a certi comportamenti, bensì, senza colpevolizzare, senza moralismi, potrebbe essere una denuncia.
Già per il fatto che tu ed io siamo qui a parlarne è una cosa buona e trovo interessante il tuo interesse ad una problematica del genere. Un abbraccio.
Uno scritto, che senza parole urlate ed urticanti, riesce a farci pensare con profondità alla difficoltà di un essere umano traumatizzato di esprimere la sua profonda pena…
Un bacio
un bacio, Manuela
mi spiace tu l’abbia voluta finire così…con una storia da inventare.
non è un incoraggiamento a denunciare le violenze, è quasi un invito a lasciare le cose come sono…
e le cose non vanno lasciate cosi, mai.
MAI
sicuramente potevi scriverlo molto meglio, ma resta un breve racconto comunque forte.
non si capisce il grado di violenza, ma riconosco il dolore del sopruso.
perchè lo conosco bene.