Era la settimana di Natale. C’era da fare l’albero e il presepe. Sarebbe toccato a me anche questa volta. Quando c’era in casa mia figlia, all’albero ci pensava lei: riusciva a fare un albero di Natale che sembrava una ceramica di Capodimonte; senza luci, ma con squisiti ornamenti, e così originale che chi veniva a trovarci ne restava ammirato. I più, tuttavia, lamentavano la mancanza di lampadine intermittenti, perché – se non c’è la luce – che albero è. Come se gli alberi fossero senza luce, gli diceva. Siete mai stati in una foresta di notte, con appena un filo di luna? Gli alberi la luna ce l’hanno tutta addosso, e dentro. Come noi respiriamo l’aria e cerchiamo la luce, gli alberi vivono del firmamento. Laura l’aveva capito e il suo albero di Natale risplendeva da solo, per chi lo sapeva guardare. Del resto – diceva – era una prova per vedere se uno conosceva ed amava gli alberi: e se non li amava, a cosa serviva ricoprirli di tutti quei lustrini incandescenti se non per far mostra di se stessi? L’albero non è mai nudo: perché lo volete rivestire, e da clown?
Da quando se n’era andata, avevo proseguito io, cercando di fare tutto quello che aveva fatto lei: ma si capiva che mancava qualcosa. L’albero mi veniva ricco (anche sontuoso) ma non era «bello». Cercavo invano di imitare la sua segreta grazia di mostrare e insieme nascondere quei deliziosi bijoux: ma a me non riusciva. O erano troppo nascosti o troppo in vista. Pareva che l’albero ritraesse le sue fronde, si irrigidisse alla mia volontà. E io ne avrei fatto volentieri a meno; anzi, se era per me, l’avrei preso, prima che morisse del tutto e l’avrei piantato giù nel campo vicino agli altri abeti, dov’era il suo posto.
Ma se non avessi “fatto l’albero” mi avrebbero detto che nemmeno a quella minuzia avevo pensato (perché si sa, l’albero di Natale ce l’hanno tutti, fa ornamento, e forse porta bene).
Insomma era un vero impiccio: perciò cercavo di farlo più alla svelta possibile, tanto eravamo estranei io e lui; e poi lo sentivo bene che mi considerava un intruso, quando gli mettevo le mani dentro per tutti quegli ammennicoli. Cosicché quand’era finito tiravo un sospiro di sollievo.
Il presepe invece era un’altra cosa. Pareva mi chiamasse. Quando si avvicinava il Natale, quello spazio dove l’avrei sistemato mi si dilatava dentro e ogni giorno di più reclamava la mia presenza. Naturalmente a nessuno in casa mia interessava il presepe, anzi capivo di essere considerato un rimbambito che si rimette a giocare con le statuine. Ma non ci potevo rinunciare: anche se avessi dovuto lasciare tutto nello scatolone in cantina, la sera prima avrei preso un bel foglio e ci avrei disegnato tutto quanto, e ci avrei scritto anche le parole dei Figli della Luce, come feci quell’anno quando lo fissai con quattro puntine sulla libreria. E venne così bene che lo fotografai, per rivivere con quelle figurine un po’ sghembe ma vere, e mie, la solitudine di quel Natale.
Dunque, finito l’albero, una sera dopo cena, quando ero rimasto solo in casa, cominciai a fare il presepe.
Avevo un piccolo vano nel mobile del salotto che serviva a tenere in mostra due o tre chicchere con una gran conchiglia che faceva tristezza a guardarla fra quelle lustre cianfrusaglie; lei così opaca e lontana dal suo abisso d’ombra. Questo vano era quasi all’altezza degli occhi. Per prima cosa posi nell’angolo di destra una piccola luce che avrebbe dovuto illuminare l’interno della grotta; poi il cielo stellato che avvolgeva tutto da oriente a occidente; le montagne con alcune casette bianche e, scendendo, umili personaggi che non c’erano allora ma c’erano nel Natale della mia infanzia.
Il venditore di bruciate, la nonna col grembiulone che alimentava il fuoco col ventaglio di penne, il contadino col fascio di vitalbe sulla spalla; e poi pecore e agnelli, ed i pastori. Anche le palme, forse l’unica memoria dell’oriente; e sotto una palma la donna che attingeva al pozzo.
La grotta occupava tutto l’angolo a destra: per questa ho sempre avuto delle statue grandi e di pregio, venute chi sa da dove. Gesubambino in un bel giaciglio, la Madre dal volto sereno, Giuseppe bello e pensoso, e non mesto come spesso vien fatto. Dietro, un bue panciuto e un asino snello, accovacciati, che prendevan gran posto ma giustamente, perché eran di casa. La borraccina, quella colta sulle prode di San Martino, la fissavo dappertutto: vi sentivo il fresco vivo della primavera, quel suo verde squillante era già un’allegria. La neve stentavo a metterla, perché per me il solstizio d’inverno segnava l’inizio della nuova luce: era finito l’autunno, il «tempo della notte» era finito.
Quando fu tutto a posto, spensi la luce nella stanza e il mio presepe cominciò a vivere.
Dovevo abituarmi a quella luce fioca, ma poi pian piano fu come camminare in campagna di notte con la luna. Le case lontane mandavano riflessi azzurri e in certi fiochi riverberi si indovinavano i fuochi nascosti dei pastori mentre le pecore bianchissime facevano da contrappunto alle stelle, lassù. Mi avvicinai con gli occhi alla grotta scendendo dai palmeti (immaginavo una musica, quelle nenie ritmate d’oriente che non hanno mai fine ma sono come l’aria, ti entrano dentro, le respiri).
Sulla soglia un pastore inginocchiato, grande – in primo piano – con l’agnello sulle spalle: la sua sagoma disegnava la grotta luminosa, e la grotta era la fonte della luce che proseguiva alta nella cometa d’argento (o era la cometa che l’illuminava). Una sorta d’incantato mistero circolava dentro quel nido, come una mano socchiusa, che se ti avvicinavi pareva una conchiglia dal brusio incessante.
Quello era il mio presepe, eppure non ero sicuro di averlo fatto io, c’era qualcosa di non mio che mi dava ogni sera un’emozione. Qualcosa di sacro aleggiava fra i personaggi: era come contemplare un’icona, dove c’è qualcosa di più del pittore, di più del colore, di più della materia, e il legno non è legno, e l’oro non è il tuo oro: Qualcuno si è servito di te.
Quand’era tardi, me ne stavo lì in preghiera e non so che preghiere dicevo, strani balbettìi, confusioni di parole dette e ridette e silenzi che m’inondavano il cuore e ricordi che mi muovevano dentro non so quale allegria, una voglia di ridere e di parlare. Di stare insieme. A chi? Ero solo, è vero. Mi staccavo con difficoltà da quella luce, quasi arretrando, silenziosamente, strusciando le mani sul grande mobile mentre me ne andavo, come a voler portare con me quella vita.
Ogni sera. Il mattino no. Era come se tutto sparisse e il sole pareva troppo piccolo per entrare in quella grande notte; ma la sera ritrovavo la mia preghiera interrotta. Fino all’ultimo giorno dell’anno e poi oltre, nell’anno nuovo, fino a quella notte che non dimenticherò: la notte dell’Epifania, il compimento dell’Annunzio.
Perché ogni presepe – ed anche il mio presepe – fino a quella notte è incompleto: dovevano arrivare tre personaggi, importanti e misteriosi come tutti coloro che giungono dall’Oriente.
Noi ragazzi li abbiamo sempre chiamati i Re Magi, anche se re non erano, ma uomini di scienza a cui la scienza non bastava dal momento che si erano fidati di una stella annunciata da antiche leggende.
Gli uomini che vengono a occidente vogliono vedere dove va a finire il sole. Anch’io da bambino pensavo: chi sa dove dorme il sole, avrà anche lui un letto; dove passerà la notte e come sarà bella – mi dicevo, sarà una notte senza notte…
I Magi speravano di trovare qualcosa che non conoscevano, da sempre invisibile che ora si era fatto visibile; lo trovarono in una forma piccola preziosissima che si muoveva appena, come sembra fare il sole – e prima non c’era – nel paese più nascosto del mondo; una terra di eterni schiavi, tutta pietre e lamenti e tuttavia piena di segni; un popolo che diceva di avere visto Dio scrivere la Verità sulla pietra e lo pregava ogni giorno cantandogli le sue poesie.
I Magi erano tre, anche per questo erano importanti. Ho sempre pensato che tutto ciò che non è trinitario è effimero, destinato ad appiattirsi e scomparire. Nel loro caso il numero si legava strettamente ai doni che portavano: oro incenso e mirra. Ricchezza, potere e morte. Qui forse era la mirra a far convivere le altre due realtà: solo l’oro che si dona (si separa dal possesso) fa diventare potenti; e solo se l’incenso brucia interamente se stesso (si consuma, non è più) rende veramente regale colui al quale è offerto. L’apparente morte assume la realtà positiva dell’amore e la sua presenza esalta e rende credibili e «positive» due realtà potenzialmente negative.
Mario, dove ti perdi…: giri intorno a quel momento, perché non ti va di riviverlo. Lo temi.
Ma come poter vivere quello che è oltre la vita? Avverti un rapprendersi della carne che vuol catturare in sé la perla inestimabile, quasi a proteggerla da una sicura offesa esterna.
Nella borsa dei vecchi giornali che le nascondevano, presi una statua, quella di Melchiorre e la posi a sinistra della grotta, poi la seconda, quella di Baldassarre, a destra. Provai di nuovo un antico cruccio – e sono ormai tanti anni – da quel giorno che non trovai più il terzo personaggio.
Ma ora, non capivo perché quell’assenza mi facesse tanto male; mi sembrava che mancasse troppo, quasi tutto, e non potevo lasciare quei due davanti a Gesù, soli.
Perché non era pensabile che fossero soltanto due: c’era qualcosa di grande che «non tornava». E non per quel bel sofisma del «tre», ma per qualcos’altro che non riuscivo a intuire.
Finché non guardai attentamente i miei due «amici». Quello a sinistra teneva in mano un cofanetto con l’oro; l’altro a destra aveva un recipiente con l’incenso.
Ecco, nel mezzo, proprio al centro della luce, lì davanti al Bambino mancava l’uomo con l’essenza amara, la mirra.
Mancava il profumo amaro, il balsamo per il sepolcro, il dono che ogni figlio d’uomo riceve non appena emette il primo vagìto. Ma se quel balsamo fosse invece il segno dell’avvento di una «necessaria» ferita per la quale passa inevitabilmente il Regno-senza-fine? La medicina per sanare la nostra malattia più letale, quella della nostra inseguita eterna umanità?
Forse tutto questo è vero. Ma mi fiorì quella notte un altro pensiero, e lo sentii così mio che le labbra si mossero in preghiera. Quella mirra era l’amaro della mia vita, tutto il dolore che portavo nella carne, tutto l’assenzio con cui avevo cosparso il volto – occhi e labbra – di chi mi aveva amato; la mirra il mio peccato posato lì sulle mie mani protese in offerta; perché altro non avevo da donare al figlio della Luce se non il mio peccato.
Così, ad un tratto, io non so come – e il cuore ancora ne trema -, quel presepe che mi stava davanti agli occhi si mosse nelle quattro dimensioni dello spazio e divenne la terra dove posavano i miei piedi; la grande luce m’inondava tutto; a sinistra era Melchiorre e a destra Baldassarre, veri, con le loro mani vere che portavano doni. Ed io con loro, col mio corpo proteso a offrire l’essenza amara del mio peccato. Eppure nessun dono mi parve più grande, più mio; non avevo mai posseduto un tal tesoro da offrire, ed ecco che lo donavo tutto, senza timore.
Credo che anche le mie vesti fossero splendenti, perché così dev’essere per un Re. E anche me avvolgeva la cometa che ci aveva guidato alle soglie della vita.
C’era un silenzio che traboccava di voci – di memorie – che rifiorivano. Un soffio che si avvertiva, vivente.
Non so quanto ci trattenemmo e cosa dicevamo fra noi.
Era stato lungo il viaggio, lo so io quanta fatica per arrivare fin lì, che pazzia credere di poter aprire quelle dita rattrappite. Ma avevo ritrovato le mie mani, e com’erano belle.
Ero in quel nido, come stordito, e non ricordavo nulla. Fu come rinascere. Ricordo che mi veniva voglia di ridere, e ballare, e cantare; esitai solo un po’: ma i miei due amici mi guardavano fisso negli occhi, con dolcezza. E allora risi e sorrisi, a tutti: al cielo stellato e alle case lontane, all’uomo delle bruciate, alla donna al pozzo (s’era appoggiata al secchio, pieno), al pastore che mi mise il suo agnello sulle spalle e io lo reggevo, tanto ormai le mani le avevo tutte e due libere, forti.
Sorrisi anche a Marta, voltandomi al suo richiamo: – Ricordati di spengere la luce, sennò brucia tutto –
– La luce? Ma se è tutto spento!
– Già, si vede che c’è cascata dentro la cometa!
Infatti.
Il presepe splendeva.