L’odore del mastice di Paolo Perelli

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«Signore e signori, siamo giunti alla fine del nostro lungo e incompleto viaggio tra i generi coreografici del mondo greco. L’ultima danza è la più antica di tutte e si chiama Zeïbèkiko. La ballavano gli Zeibèkidi, una tribù dell’Asia Minore che i Turchi sterminarono nell’Ottocento senza mai riuscire a sottomettere. Era una danza individuale legata al ‘pane’: la radice bek la trovate in alcune parole moderne come bakery… Il danzatore non segue uno schema prestabilito, inventa i passi sulla base della musica lasciando andare le proprie sensazioni».
Despina si gira verso un angolo del locale: il vecchietto, che per tutto il tempo è rimasto seduto, si alza lentamente nell’applauso mentre alcuni degli astanti si accovacciano intorno a lui battendo le mani a tempo. Lo guardiamo muoversi avvolto dalla musica come se questa emani da lui stesso. Danza. Nei suoi movimenti è scomparsa la lentezza dell’età; non è diventato più veloce: si muove in un tempo che gli è congeniale. Il pezzo non ha struttura di versi e strofe: difficile capire quanto manchi alla fine. Questa musica non si pone come oggetto dei sensi: è lei che avvolge me…
La danza dura parecchi minuti e termina in un lento smorzarsi che ne suggella la solennità. Istanti di silenzio prima dell’inevitabile applauso. L’uomo ride affannato, allegro, soddisfatto come avesse messo la firma a qualcosa di importante. Prima di tornare a sedersi si gira verso di me e con uno sguardo risolve il dubbio d’ammiccamento che mi ha accompagnato per tutta la serata.
«Kyriàkos è straordinario,» dice Cristina.
«Come si chiama?» chiede Ester abbassando la testa e aggrottando la fronte.
«Kyriàkos, che vuol dire Domenico oppure Ciriaco».
«Domenico o Ciriaco?»
«È lo stesso: un nome lo traduce, l’altro ne imita il suono. Pensate che ha novantatre anni, vive solo e non parla italiano. Ogni volta che si balla lui è in pista».
Il vecchietto è tornato al suo posto sorridente, continuando a guardare con insistenza verso di noi. Ricambiamo con sorrisi mimando il gesto dell’applauso; sul suo volto si disegna un punto di domanda mentre noi, incapaci di scegliere fra Domenico e Ciriaco, non andiamo oltre gesti e sorrisi di circostanza.

(…)

Il vecchio si è alzato di nuovo e, afferrandomi con energia irresistibile, mi trascina al centro della pista e inizia a danzare. Mi tiene per mano, la sua sinistra alza la mia destra, sto al gioco imitandone i movimenti. Ma è più di un gioco che mi spinge a riprodurre i suoi passi nel modo più preciso possibile. Incontro subito una gran difficoltà: la musica e i movimenti di Kyriàkos non rispondono ai miei sistemi di attesa. Tento senza successo di decifrare la successione dei passi riconducendola a una sequenza predicibile. Con frustrazione crescente osservo i piedi leggeri di Kyriàkos compiere movimenti semplici e a me inaccessibili, mentre la sua mano non cessa di tenere alzata la mia. Procede in senso antiorario seguendo un cerchio che solo lui vede. Avverto gli sguardi divertiti delle persone intorno: ma sì, è una cosa simpatica, nessuno si aspetta da me che sappia ballare una danza greca. È rassicurante. Sto per arrendermi all’impraticabilità della faccenda: continuerò a muovere i piedi a casaccio attendendo la fine del pezzo per poi applaudire il vecchietto e tornarmene a posto. Tra poco sarà tutto finito e potrò dedicarmi a ciò che mi serve.
Ma il pezzo non accenna a finire, anzi un attimo prima di quella che sembra essere la battuta finale, la musica riprende come fosse appena iniziata. Accade qualcosa di nuovo: alzo lo sguardo dai piedi di Kyriàkos e incontro i suoi occhi. Poi fisso la sua mano, che non ha mai smesso di sostenere la mia.
È allora che comincio a danzare, a procedere con i suoi stessi passi senza più fissare i suoi piedi né i  miei, guardando di fronte ad altezza d’uomo. Il locale non c’è più: la musica è diventata immagine e sostanza, mentre un’altra persona si accoda a noi, sollevando la mia mano sinistra rimasta libera. Tutti e tre procediamo in cerchio guidati da Kyriàkos. Vorrei che la danza non finisse mai.
Finisce invece, e solo allora mi rendo conto che stavo danzando ad occhi chiusi.

***

Dal libro L’odore del mastice di Paolo Perelli.
Per ordinare il libro con dedica autografa dell’autore clicca qui (Prezzo: € 12,00)

«Signore e signori, siamo giunti alla fine del nostro lungo e incompleto viaggio tra i generi coreografici del mondo greco. L’ultima danza è la più antica di tutte e si chiama Zeïbèkiko. La ballavano gli Zeibèkidi, una tribù dell’Asia Minore che i Turchi sterminarono nell’Ottocento senza mai riuscire a sottomettere. Era una danza individuale legata al ‘pane’: la radice bek la trovate in alcune parole moderne come bakery… Il danzatore non segue uno

schema prestabilito, inventa i passi sulla base della musica lasciando andare le proprie sensazioni».

Despina si gira verso un angolo del locale: il vecchietto, che per tutto il tempo è rimasto seduto, si alza lentamente nell’applauso mentre alcuni degli astanti si accovacciano intorno a lui battendo le mani a tempo. Lo guardiamo muoversi avvolto dalla musica come se questa emani da lui stesso. Danza. Nei suoi movimenti è scomparsa la lentezza dell’età; non è diventato più veloce: si muove in un tempo che gli è congeniale. Il pezzo non ha struttura di versi e strofe: difficile capire quanto manchi alla fine. Questa musica non si pone come oggetto dei sensi: è lei che avvolge me…

La danza dura parecchi minuti e termina in un lento smorzarsi che ne suggella la solennità. Istanti di silenzio prima dell’inevitabile applauso. L’uomo ride affannato, allegro, soddisfatto come avesse messo la firma a qualcosa di importante. Prima di tornare a sedersi si gira verso di me e con uno sguardo risolve il dubbio d’ammiccamento che mi ha accompagnato per tutta la serata.

«Kyriàkos è straordinario,» dice Cristina.

«Come si chiama?» chiede Ester abbassando la testa e aggrottando la fronte.

«Kyriàkos, che vuol dire Domenico oppure Ciriaco».

«Domenico o Ciriaco?»

«È lo stesso: un nome lo traduce, l’altro ne imita il suono. Pensate che ha novantatre anni, vive solo e non parla italiano. Ogni volta che si balla lui è in pista».

Il vecchietto è tornato al suo posto sorridente, continuando a guardare con insistenza verso di noi. Ricambiamo con sorrisi mimando il gesto dell’applauso; sul suo volto si disegna un punto di domanda mentre noi, incapaci di scegliere fra Domenico e Ciriaco, non andiamo oltre gesti e sorrisi di circostanza.

Il vecchio si è alzato di nuovo e, afferrandomi con energia irresistibile, mi trascina al centro della pista e inizia a danzare. Mi tiene per mano, la sua sinistra alza la mia destra, sto al gioco imitandone i movimenti. Ma è più di un gioco che mi spinge a riprodurre i suoi passi nel modo più preciso possibile. Incontro subito una gran difficoltà: la musica e i movimenti di Kyriàkos non rispondono ai miei sistemi di attesa. Tento senza successo di decifrare la successione dei passi riconducendola a una sequenza predicibile. Con frustrazione crescente osservo i piedi leggeri di Kyriàkos compiere movimenti semplici e a me inaccessibili, mentre la sua mano non cessa di tenere alzata la mia. Procede in senso antiorario seguendo un cerchio che solo lui vede. Avverto gli sguardi divertiti delle persone intorno: ma sì, è una cosa simpatica, nessuno si aspetta da me che sappia ballare una danza greca. È rassicurante. Sto per arrendermi all’impraticabilità della faccenda: continuerò a muovere i piedi a casaccio attendendo la fine del pezzo per poi applaudire il vecchietto e tornarmene a posto. Tra poco sarà tutto finito e potrò dedicarmi a ciò che mi serve.

Ma il pezzo non accenna a finire, anzi un attimo prima di quella che sembra essere la battuta finale, la musica riprende come fosse appena iniziata. Accade qualcosa di nuovo: alzo lo sguardo dai piedi di Kyriàkos e incontro i suoi occhi. Poi fisso la sua mano, che non ha mai smesso di sostenere la mia.

È allora che comincio a danzare, a procedere con i suoi stessi passi senza più fissare i suoi piedi né i miei, guardando di fronte ad altezza d’uomo. Il locale non c’è più: la musica è diventata immagine e sostanza, mentre un’altra persona si accoda a noi, sollevando la mia mano sinistra rimasta libera. Tutti e tre procediamo in cerchio guidati da Kyriàkos. Vorrei che la danza non finisse mai.

Finisce invece, e solo allora mi rendo conto che stavo danzando ad occhi chiusi.

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Paolo Perelli

Paolo Perelli è nato a Roma nel 1966 dove vive con la moglie di origine greca e il figlio.
I suoi primi quarant’anni sono stati caratterizzati da una formazione di tipo scientifico, culminata in una laurea in Matematica, che lo ha aiutato a maturare uno sguardo sintetico sulla realtà, e una in Teologia, del cui studio ha apprezzato la sollecitazione ad “andare oltre” nella ricerca di senso.
In questo periodo ha prodotto diversi scritti, rimasti nel cassetto, nei quali ha espresso la ricerca di una nuova visione del mondo rispetto a quella fornita dalla tecnologia che domina il mondo attuale.

2 COMMENTS

  1. l’idea del libro mi pare assai interessante. Raccontare delle Genti che dopo eroica resistenza sono fatte scomparire da coloro che scrivono la storia (i vincitori) è opera encomiabile e meritoria.

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