Osservava il paesaggio, osservava gli alberi, la campagna, che velocemente sfuggiva via al suo sguardo, poi il suo volto riflesso nel vetro, su quel treno affollato era solo, nessuna donna a fargli compagnia, nessun amico per condividerlo. Era fuggito dal suo passato, dal suo presente e dal suo futuro, non era riuscito ad adeguarsi agli standard di quella vita, non era riuscito a metterla a posto, debiti da saldare, donne sbagliate, sofferenza, aveva scelto questa vita o più semplicemente il suo essere era così, si faceva forza pensando che tutti gli artisti vivono così, allo sbando, alla giornata, senza programmi ne proclami, senza avvenire, ma i suoi quadri erano ancora nella cantina, aveva provato con mostre, concorsi, tanti elogi ma niente soldi. Qualche tempo prima aveva pensato di trovarsi un lavoro comune, un lavoro da automa, era entrato in una ditta produttrice di piastrelle, non aveva retto, quindici giorni e si era licenziato, non sopportava tutto quel tempo isolato dal mondo, credeva di diventare pazzo, per questo si sentiva diverso, un buono a nulla, ma proprio non sopportava la catena di montaggio. Con gli ultimi soldi rimasti prese quel treno, deciso a provare nuove emozioni, magari avrebbe trovato nuovi spunti, energia fresca per le sue creazioni, non gli restava altro, solo questo, altrimenti la catena di montaggio, il logoro passare delle giornate che si susseguono uguali senza sorprese, senza brio. Guardava la gente intorno a lui, tutta quella gente che riempiva quel vagone, quel treno, due braccia, due gambe, due piedi, due mani, una testa, pensò: “all’apparenza sembriamo tutti uguali, tutti simili, stampati e buttati in pasto alla vita”. Si sentiva estraneo, diverso, un uomo colorato nel grigiore che lo circondava, gli venne in mente Van Gogh, quel quadro con l’iride bianca, si sentiva così, ma non era Van Gogh, quel pittore era un genio, un vero artista, ma lo rassicurava pensare che non tutti hanno una vita “normale”.
Continuava a stare fermo, in quel posto, avrebbe voluto ascoltare un po’ di musica, ma l’unico suono che riceveva era quello delle rotaie.
Prese un libro dalla borsa, iniziò a leggerlo, Bukowski, penso: “che uomo, non si è mai arreso davanti alle sconfitte, ha continuato testardo per la propria strada, adesso il suo talento era tra le fauci della storia”, era un altro dalla vita dura, difficile, rileggeva nel retro della copertina quelle dichiarazioni su di lui, “forse un genio, forse un barbone”, avrebbe voluto essere considerato così un genio barbone, pensava al giorno in cui tutto sarebbe stato più facile, più semplice, quante donne avrebbe avuto? Quanti soldi? Se solo i suoi quadri fossero stati riconosciuti come opere d’arte, come capolavori. Adesso non era così, niente era così, di artistico forse c’era solo la sua follia, la follia di un uomo fuggito per depressione, appiattimento, da una vita che non sentiva più sua. Avrebbe voluto amalgamarsi, unirsi ai propri simili, ma non ci era riuscito, non era stato capace, era diverso, era la sua condanna.
Suonò il telefono, frugò nelle tasche, lo trovò, lo prese e guardò chi era, un groppo gli chiuse la gola, era lei, lei che tanto aveva amato e per lei tanto aveva sofferto. Resto fermo ad osservare il display, non rispose, preferì non farlo, in un momento di razionalità decise che era meglio così, in fondo anche lei era un motivo della sua fuga. Lei lo aveva ucciso, gli aveva fatto perdere la fiducia in se stesso nei confronti delle donne, non riusciva più a vederle nella stessa maniera, credeva di essere diventato un misogino, sapeva di non esserlo, non era mai stato realmente bruciato da quella ragazza, ma provava nei suoi confronti repulsione che si rifletteva su di sé. Il telefono smise di suonare, si sentì di colpo fiero, fiero di se stesso, era riuscito a combattere ed uccidere la tentazione. Continuava ad osservare il paesaggio di quella campagna che velocemente gli passava davanti agli occhi e restava sempre così uguale, intatta, come in un quadro. Ripensava a quella telefonata, a lei e a tutte le donne, pensò che c’era un fattore comune a tutte, una cosa che rendeva le donne uguali tra loro ed era il loro “senso di prostituzione”, non voleva offenderle, forse rendeva omaggio alla loro capacità di sapersi dare un prezzo sin dalla nascita, secoli di storia, secoli di sottomissione, avevano istruito le donne, a differenza dell’uomo che cambia il proprio prezzo a seconda delle circostanza, la donna conosce realmente il suo valore, può fare sconti ma il prezzo torna inalterato quello di prima, poi iniziò a ridere, ridere di gusto, se gli avessero chiesto come vedeva le donne in quel momento, non avrebbe dato loro una sembianza umana, due gambe, due braccia, un busto ed una testa, ma bensì un enorme vagina parlante, forse la sua repulsione per quel sesso era reale e molto più forte di quanto credeva.
Si sentiva stanco assonnato, la notte precedente non aveva chiuso occhio, non era riuscito a dormire, tutti quei pensieri, tutta quell’ansia lo avevano accompagnato nel buio, aveva osservato la sua stanza, le pareti, i libri e i dischi, poi la borsa nell’angolo. Aveva osservato quella borsa a lungo, come un cane che ti aspetta, che aspetta l’ora della passeggiata e ti osserva dai piedi del letto.
Riprese in mano il libro, provava a leggere ma non ci riusciva, gli occhi ad ogni rigo si facevano più pesanti, sempre più piccoli, più chiusi, lo richiuse, lo posò sulle gambe tenendolo stretto con le mani. L’immagine di quell’uomo, di quello scrittore, tornò ai suoi occhi, avrebbe voluto chiacchierare con lui, chiederli come aveva potuto reggere tutto questo fino a cinquant’anni, come poteva aver sopportato il non riconoscimento del suo talento, come aveva potuto restare in piedi, non affogare contro le correnti ostili, essere consapevoli del proprio talento e non essere riconosciuti per questo. Aveva continuato ad essere se stesso consapevole che tutto ciò sarebbe finito, consapevole di poter sbattere la porta in faccia a chi lo aveva considerato solo un ubriacone, un fallito, forse il suo atteggiamento era solo figlio del suo destino. Qualcuno gli aveva donato un talento, uno spirito, una mentalità che si sposava con le proprie doti, o forse più semplicemente era stato solo caparbio, disegnandosi una fine migliore di tanti altri come lui, aveva sgomitato credendo che quello fosse il suo destino. No, il destino quello non può essere, se esistesse un destino potremmo stare tranquillamente seduti ai nostri posti, in quelli che ci sono stati assegnati, aspettando passivi, remissivi, che si presenti a noi, no, il destino è solo una grossa stronzata per non farci credere che abbiamo fregato la vita, che siamo riusciti a trovare il bandolo della matassa. Il destino è il giusto compagno della speranza, due cose utili a non pagare lo psicanalista, ma realmente senza senso. Pensava anche a tutti quei cantanti, attori, artisti dalla vita stravagante, fuori da ogni schema, e si chiedeva se si sarebbero comportati alla stessa maniera se non avessero avuto quel dono, quella dote. Kurt Cobain, Jim Morrison, Andy Warhol, sarebbero stati gli stessi da impiegati di banca, ragionieri o cassieri? Non sapeva darsi una risposta precisa, chiara, ma forse era stata proprio la loro diversità, il loro essere geni a renderli così, in fondo si può essere creativi anche facendo un lavoro comune, un impiego seriale, la loro vita sarebbe stata sregolata ugualmente e Bukowski ne è l’esempio, potremmo essere circondati da geni e solo il fatto che non trovino un modo per esprimerlo, non significa che siano dei falliti.
Il sole era sparito, tutto il paesaggio era sparito, era stato inghiottito dal buio, le luci artificiali illuminavano quella carrozza, un enorme serpente scintillante che buca la notte. Amava quella sensazione, tutto era nero attorno a lui, le forme erano sparite, tutto era diventato piatto la fuori, amava la sensazione di viaggiare nell’oscurità, la sensazione di vita trasmessa dallo sfrecciare dello scintillio nelle tenebre. Si sentiva al sicuro, immerso nel calore del grembo materno.
Sentì dei rumori, un vociare in fondo alla carrozza, due bambini giocavano osservati dalla madre, pensò “i bambini, nascono e crescono inconsapevoli di tutto, inconsapevoli del fatto che un futuro già li aspetta, che li inghiottirà nella morsa delle responsabilità e dei doveri, credono ancora alla farsa del sole lucente e delle colline verdi, ma tutto sommato nelle loro menti vive ancora la gioia”.
Aveva voglia di fumare, di inebriare la sua mente con la nicotina, si alzò camminando fino al bagno. Chiuse la porta e accese una sigaretta, la prima boccata fu profondissima, piacevolmente delicata, sentiva il fumo percorrere la sua bocca, la sua gola fino a raggiungere i polmoni, continuò a fumare guardandosi nel piccolo specchio appeso sopra il lavandino. Avrebbe voluto accompagnarla con una birra, una birra gelata, “in certe occasioni così appiccicose non c’è niente di meglio di una birra”. Pensava e ripensava al suo gesto, non riusciva più a capire se fosse stata la miglior cosa, si sentiva un vigliacco, forse lo era, non era riuscito ad affrontare i suoi fantasmi, forse non aveva avuto il coraggio di farlo, ma ormai tutto si era dissolto, tutto era sparito dietro di lui e si era cancellato con il buio. Un giorno sarebbe dovuto tornare, avrebbe dovuto guardare in faccia quella realtà, affrontarla e sconfiggerla. Questo pensiero lo rafforzò, un fuoco gli salì dallo stomaco inebriandogli la mente, credeva di poter tornare da vincente.
Continuava a fissare l’invisibile paesaggio che divorava quel mezzo, “potremmo sfiorare incredibili valli abitati da esseri fantastici o trovarci in una galleria e non farebbe alcuna differenza per gli occhi, il buio cancella tutto, rende tutto così uguale e sopportabile”.
Non sapeva cosa sarebbe stato di lui, non sapeva cosa o chi lo avrebbe aspettato, ma si sentiva pronto, deciso almeno per questa volta a non mollare, in fondo poteva essere la sua ultima opportunità, sapeva di no, ma voleva immaginare che fosse così, “in fondo se qualcuno pensa che non hai niente da offrire, anche niente puoi offrire”.
Il buio andò gradualmente a sparire, le luci della città lo dilaniavano, il treno iniziò a rallentare metro dopo metro, i freni fischiarono ed i suoi occhi videro il cemento dei palazzi, videro asfalto ed auto, poi la stazione, i colori e le luci.
Il serpentone meccanico si fermò, le porte si aprirono, entrò un tiepido leggero venticello, si alzò e scese.
Bravo!!
Simone, ho cominciato a leggere il suo brano per curiosità e mi sono trovata a clickare su “leggi tutto”, perchè volevo verificare la sua capacità di approfondimento di una situazione che credo comune a tanti uomini: la fuga.
Ci è riuscito benissimo e voglio dirle tutto il mio apprezzamento in positivo.
In poche parole, mi ha intrigato (il fine più ricercato da ogni scrittore)e sono andata avanti, anche nella speranza di trovare un rasserenamento, dopo tanto pessimismo. Mi ero un po’ indignata all’idea del giovane artista che non aveva accettato un lavoro di routine e che adesso, dopo avere speso gli ultimi soldi nel biglietto ferroviario, era in viaggio per chissà quale destinazione. “In cerca di cosa?” mi chiedevo; e credevo di scoprirlo andando avanti nella lettura. Ho sperato fino alla fine che il passeggero notturno, capace di trovare tanta poesia in un treno che bucava l’oscurità, avrebbe anche deciso di “abbassarsi” ad un lavoro non gradevole,”seriale”, come fanno quasi tutti gli artisti ossessionati davvero dal bisogno di esprimersi, almeno nelle ore che possono rubare alla routine quotidiana; un lavoro utile a comprare gli strumenti per realizzare il suo disegno artistico e per vivere, con o senza “l’enorme vagina parlante”. E poi, perchè tanta misoginia? Perchè non rispondere al telefono? Per paura di non saper resistere alla tentazione? Sarebbe bastato un “Vade retro, Satana”,detto bello chiaro e tondo. Non crede? Il personaggio da lei creato esiste davvero, moltiplicato per cento e per mille nella vita reale. E quella corsa nella notte, sentendosi ancora come nel grembo materno, descrive benissimo la voglia di non crescere di tanti uomini come il suo passeggero,che addirittura non vuole nemmeno nascere. Bravo. Glielo dico con convinzione, ben sapendo che le situazioni ed i personaggi da noi creati non sono quasi mai autobiografici, per nostra fortuna. Almeno lo spero per lei.
Approfitto per augurarle un sincero Buon Natale. PAOLA PICA