Era mattino inoltrato mentre guidavo la mia auto lungo quel litorale a me così familiare. Da giovane l’avevo percorso innumerevoli volte, prima che la vita mi conducesse in altri luoghi, diversi e lontani.
Ora invece ero vicino alla spiaggia della mia giovinezza, non era stato difficile ritrovarla. Sceso dall’auto, m’incamminai per uno stretto passaggio che conduceva al mare, e vidi che il vecchio stabilimento era ancora lì, anche se era cambiato.
In peggio.
Lo guardai dall’area libera confinante, ricordando che era vietato fermarsi su quella spiaggia riservata ed era mal tollerato anche il semplice passaggio lungo il bagnasciuga. Notai che la costa sabbiosa era arretrata di parecchi metri rispetto alla sua estensione di una volta: era stata divorata da un mare sempre avido e da uomini che non avevano saputo difenderla.
La suddivisione delle cabine era rimasta del tutto identica: una lunga fila senza docce per i gradi più bassi e, su una piattaforma sopraelevata, una fila di cabine con letto e doccia per i gradi superiori.
Da un lato c’era sempre il bar–ristorante, con dei tavolini sotto una tettoia che ormai lasciava intravedere i segni del tempo. Ricordai quante volte avevo pranzato lì con i miei genitori, ora invece non avrei potuto nemmeno prendere un caffè al bar, anche quello interdetto agli estranei.
A quel tempo la stagione delle vacanze durava da giugno, quando finivano le scuole, fino a settembre, quando a volte si dovevano sostenere gli esami di riparazione e poi tornare a scuola: iniziava il nuovo anno, e a noi ragazzi restava solo un po’ di tintarella sulla pelle assieme ai ricordi del mare e dei “filarini” dell’estate.
Cercai istintivamente con lo sguardo la terza cabina di sinistra sulla piattaforma, ricordandomi dei baci che avevo scambiato proprio lì dentro con la figlia di un collega di mio padre, una ragazza dai capelli biondi come l’oro e gli occhi azzurri come il mare. Onestamente, più dei baci e di qualche carezza eccitante non si poteva combinare: a quell’epoca pareva che i nostri genitori fossero stati istruiti dai Carabinieri su come sorvegliare i loro figli…
A tale proposito, guardando lo spazio sotto la tettoia del bar, mi ricordai di quella festa che una sera organizzammo proprio lì e di quando, mentre ballavamo un lento, a qualcuno venne in mente di spegnere le luci, suscitando l’immediata reazione “Luce, ragazzi !” da parte di una madre lì presente, in servizio di guardia. Per contro, capitava talvolta che alcuni inquilini delle cabine importanti (quelle con letto e doccia, per intenderci) arrivassero accompagnati da cugine o nipoti, o almeno signorine presentate come tali.
Erano tempi, quelli…
Il destino aveva poi scelto per noi ragazzi strade diverse, e dagli anni dell’università non c’incontrammo più su quella spiaggia per parlare dell’amore e del lavoro, delle nostre aspirazioni, dei pochi successi e dei molti fallimenti…
Mi chiesi che fine avessero fatto la ragazza dai capelli biondi e i miei compagni di giochi, o quel mio amico così studioso che a scuola prendeva sempre 8 mentre io prendevo sì e no un 6 (se non era un bel 4…).
In compagnia di questi pensieri mi allontanai dal bagnasciuga, dirigendomi verso una macchia di cespugli bassi, tipici delle spiagge mediterranee, che avevo sempre visto lì fin da bambino.
Fu in quell’istante che notai un movimento in uno dei cespugli di fronte a me.
Un fruscio leggero tra le foglie e uscì, splendido a vedersi.
Era un ramarro dai colori abbaglianti. Lungo quasi mezzo metro, il suo verde acceso si stagliava sulla sabbia, esaltando l’azzurro splendente della gola. La testa sollevata, mi squadrò con le puntine nere dei suoi occhi, come per chiedermi cosa stessi facendo lì. Dovevo aver invaso il suo territorio, e mi venne di chiedergli scusa.
Credevo di non ricordare da quanto tempo non vedevo un ramarro, ma subito realizzai che non avveniva proprio da quelle estati che erano nella mia memoria: da ragazzo ne avevo visti tanti con mio padre nella vicina pineta…
Rimanemmo a guardarci fino a quando non decisi di prendere la via del ritorno e mi allontanai, mentre lui restava immobile ad accertarsi che io lasciassi il suo territorio.
Mantenendo negli occhi l’immagine di quel ramarro, meditai che in quel luogo della mia giovinezza erano passati gli anni, si erano dispersi gli amici ma lui esisteva ancora, e mi apparve come una stupenda espressione della natura eterna, che ogni giorno continua a rinnovarsi al di là delle vite e delle nostre vicende umane.
Immagine: Paradise Dawn di Klaus Strubel
Un racconto bello, pulito, interessante e molto, molto scorrevole. Mi è piaciuto molto!!
Marghy
Davvero un bellissimo racconto. I più vivi complimenti
Daniela Quieti